Quale datazione per i vangeli?

Che cosa sono i vangeli? Questa è la domanda a cui cercheremo di dare una risposta, partendo da una premessa: per noi i vangeli sono documenti storici, non sono solo una raccolta di miti o leggende frutto della rielaborazione teologica della chiesa primitiva ma il racconto reale e diretto della vita e delle parole di Gesù di Nazareth.

Ci rendiamo conto che questa, a livello accademico, è una tesi ampiamente minoritaria. L’idea che i vangeli contengano una verità storica oltre che una verità teologica è considerata del tutto inammissibile, se non addirittura assurda, dalla moderna critica biblica. Le tesi più accreditate a livello accademico prendono infatti le mosse dalle ipotesi di Rudolf Bultmann (1884-1976) Martin Dibelius (1883-1947) e altri che a partire dagli anni trenta del secolo scorso applicarono il metodo della critica letteraria (la cosiddetta Formgeschichte o Storia delle forme letterarie) ai testi dei vangeli concludendo che non si poteva trattare di testi unitari ma piuttosto di una raccolta di episodi indipendenti (pericopi)  che presero forma gradualmente a partire da leggende popolari, miti e parabole.

Secondo la critica moderna questi episodi furono rielaborati in maniera fantastica per rispondere ai bisogno della comunità (Sitz im Leben). Quando la comunità aveva un bisogno, ecco che si creava o si rielaborava un episodio che potesse dare la risposta a quel particolare problema. In altre parole i vangeli non sarebbero il racconto storico della vita di Cristo ma una collezione di pratiche e credenze della chiesa primitiva. Non si tratterebbe più dell’opera di singoli autori che furono testimoni oculari dei fatti narrati, o che raccolsero dichiarazioni da testimoni oculari di quei fatti, ma piuttosto rispecchierebbe la particolare teologia che una delle tante comunità cristiane aveva elaborato a partire, ed in reazione, al determinato contesto sociologico in cui si muoveva. Per esempio tutti gli episodi in cui si narrano dei miracoli, perfino quelli relativi alla risurrezione di Cristo, non sarebbero mai avvenuti, almeno non sarebbero avvenuti nei termini descritti nei vangeli, ma sarebbero soltanto delle aggiunte,  delle rielaborazioni in chiave mitologica, prese a prestito dal giudaismo e dall’ellenismo pagano, allo scopo da una parte di edificare la comunità dei credenti e dall’altra di dare impulso all’opera missionaria conquistando i non credenti.

E’ evidente che tutto questo dà luogo ad una contrapposizione tra Cristo storico, di cui secondo la critica letteraria non possiamo che conoscere poche e frammentarie informazioni, ed il Cristo della fede, o del kerygma, che ci è stato consegnato dai vangeli come il risultato delle diverse stratificazioni dovute alle influenze culturali subite dalla primitiva comunità cristiana dove, nel corso del tempo, l’insegnamento originale di Cristo si sarebbe arricchito dapprima di elementi tardo-giudaici e infine (e soprattutto) di elementi pagano ellenistici, secondo il paradigma storico che già nella prima metà dell’ottocento era stato proposto da Ferdinand Christian Baur (1792-1860) tanto che Bultmann arrivò a parlare esplicitamente dei vangeli come di “una creazione della comunità ellenistica[i] .

E’ chiaro che la tesi secondo cui i quattro vangeli sarebbero il risultato di una lenta rielaborazione in chiave mitica della figura e dei discorsi di Cristo per essere spiegata presuppone, come minimo, che sia trascorso un intervallo di tempo molto lungo tra i fatti narrati e l’effettiva redazione dei testi. La critica ha postulato che tale data sia il 70 EV. Perché questa data? Perché si adatta perfettamente alle esigenze di quella tesi. Nel 70 infatti venne distrutto il tempio di Gerusalemme, episodio fondamentale che sicuramente contribuì al fenomeno di ellenizzazione del cristianesimo, fenomeno che, ricordiamolo, i critici ritengono che abbia contribuito in maniera fondamentale, con la sua influenza, alla formazione dei vangeli. Inoltre dopo il 70 i principali testimoni apostolici come Paolo, Pietro e Giacomo erano certamente morti, lasciando così spazio allo sviluppo delle presunte influenze mitiche che si ritroverebbero nei vangeli. Oltre a ciò la critica letteraria, partendo dal presupposto razionalista che un documento storico non possa contenere predizioni, può considerare le profezie di Cristo in merito alla distruzione del tempio un vaticinio post eventum, ovvero un’aggiunta successiva che dimostrerebbe in maniera inequivocabile come la redazione definitiva dei vangeli non possa essere anteriore a quella data [ii].

Naturalmente ciascuno è libero di credere quello che vuole circa l’origine apostolica dei vangeli, il problema è che questo spartiacque del 70 è diventato un vero e proprio dogma scientifico. E’ successo alla critica biblica quello che in biologia è successo con la teoria dell’evoluzione: tutte le tesi che non  rientrano in quel paradigma teorico vengono sistematicamente tacciate di non essere “scientifiche”. Tutti coloro che in qualche modo hanno provato a retrodatare i vangeli all’epoca apostolica sono stati non solo ignorati dalla critica accademica ma perfino apertamente accusati di promuovere tesi apologetiche o addirittura fondamentaliste.  Un caso su tutti è quello di Jean Carmignac, fondatore della Revue de Qumrân, che fu oggetto di una vera e propria persecuzione da parte di Pierre Grelot, docente all’Institut Catholique di Parigi al punto che ad oltre venti anni dalla sua morte le sue opere inedite, di cui l’istituto è proprietario, non sono ancora state rese disponibili [iii].

A noi, invece, sembra francamente il contrario, ovvero che sia proprio la critica letteraria a non offrire le sufficienti garanzie scientifiche per  pretendere di avere il “monopolio” sulla datazione dei vangeli. Con questo non vogliamo dire che le tesi della critica letteraria non siano scientifiche, semplicemente vogliamo dimostrare che l’ipotesi di retrodatazione dei vangeli non si basa su argomenti meramente apologetici ma si basa su tesi altrettanto scientifiche di quelle proposte dalla critica letteraria.

Quando uno scienziato si appresta a datare un documento ha dunque tre modi di agire:

  1. Datare il supporto fisico del testo, ovvero la pergamena, il papiro, la forma della scrittura usata. Di questo si occupano la paleografia, la papirologia, la chimica e la fisica.
  2. Dopo di ciò l’indagine si sposta sulla lingua, il dialetto, lo stile, l’espressione di cui s’interessano la filologia, la linguistica.
  3. Per finire, anche in rapporto con i primi due, si ricorre all’indagine storica e sociologica per confrontare il testo con le testimonianze storiche ed archeologiche o con eventi storici conosciuti riportati nel testo.

Questo è lo schema che di solito viene usato anche per i testi non biblici, tuttavia la maggior parte degli esegeti biblici contemporanei preferisce ignorare questa via, partendo esclusivamente dal contenuto letterario. Attenzione, perché quando parliamo di contenuto letterario non parliamo di criteri filologici, linguistici  o stilistici, ma piuttosto della tesi secondo cui più il testo è corto e secco, arcaico, più è antico, mentre più è filosofico o pieno di implicazioni intellettuali, più è recente. Non si tratta dunque di una storia del testo ma di una preistoria del testo, ovvero non si ragiona su un testo esistente ma su un testo che non esiste, e forse che non è mai esistito, ma che si presuppone sia esistito in quella forma! Un criterio che, come si può immaginare, è molto soggettivo, perché presuppone un’idea e una linea di evoluzione teologica del cristianesimo primitivo che nasce non dai riscontri che arrivano da altre discipline come la sociologia, l’archeologia, la storia e la filologia ma piuttosto da una certa visione filosofica della storia, per esempio l’idealismo hegeliano.

Naturalmente non si vuole dire che la critica del testo sia un metodo sbagliato in sé, si vuole semplicemente dire che è scorretto farne il principale e l’unico metro di valutazione per decidere la data dei vangeli. Come argutamente ha osservato Paolo Sacchi, un noto ebraista italiano, su questa base la tesi secondo cui i vangeli sono stati scritti dopo il 70 diventa un assioma indimostrato, di fatto è impossibile da smontare perché non si fonda su argomenti scientifici. Lo scopo di questo articolo è proprio quello di mettere sul piatto della bilancia quegli argomenti scientifici che fino ad ora sono stati sistematicamente rimossi o ignorati dalla critica letteraria in nome del dogma di una datazione bassa dei vangeli.

Una datazione bassa dei vangeli, come abbiamo detto, presupporrebbe che siano stati scritti direttamente in greco e da autori che non gravitavano più nella sfera culturale e linguistica ebraica ma in quella ellenistica. Dovremmo dunque aspettarci che nella lingua dei vangeli vi sia una presenza solo marginale di elementi semitici, sia a livello sintattico che di terminologia usata. Sorprendentemente invece è vero proprio il contrario, infatti la lingua dei vangeli è ricchissima di elementi ed influenze semitiche. Evidentemente gli autori dei vangeli, pur parlando greco, erano profondamente influenzati dalla lingua e dalla cultura ebraica o aramaica. Già questa prima constatazione dovrebbe indurci ad essere molto cauti a datare i vangeli successivamente alla distruzione del secondo tempio quando la lingua e la cultura ebraica persero, indubbiamente, gran parte dell’importanza che potevano avere per la primitiva congregazione cristiana.

Proprio su questa strada presero le mosse gli studi del filologo ed ebraista Jean Carmignac  il quale, negli anni ottanta, pubblicò un libretto dal titolo La naissance des Evangiles Synoptiques [iv] che, come si è detto, immediatamente attirò le ire del mondo accademico. In quest’opera, che nelle intenzioni dell’autore doveva essere solo l’introduzione a tre grandi volumi che avrebbero dovuto essere pubblicati in seguito, viene infatti sviluppa una tesi molto originale che, se provata, retrodaterebbe i vangeli all’epoca apostolica; secondo Carmignac i vangeli originariamente non sarebbero stati scritti in greco ma sarebbero stati scritti in ebraico e solo in un secondo tempo tradotti in greco.  In effetti questa tesi non è nuova, già gli scrittori cristiani dei primi secoli come Papia, Ireneo di Lione, Panteno, Clemente Alessandrino, Origene, Eusebio e Girolamo riconoscono che Matteo era stato scritto originariamente in ebraico e Papia [v] dice che Marco era l’hermēneutēs, cioè l’interprete, di Pietro che, evidentemente, parlava in una lingua semitica. La novità è che Carmignac ha affrontato il soggetto da un punto di vista scientifico portando a sostegno di questa tesi una serie di argomenti estremamente seri da un punto di vista filologico.

Secondo Carmignac infatti il greco dei vangeli non è una lingua incerta, una lingua con gli errori grammaticali e sintattici, quella lingua un po’ anfibia di chi non padroneggia bene un idioma che non è il suo ; anzi, tutt’altro, il greco neotestamentario è una lingua formalmente corretta eppure allo stesso tempo non è neppure il greco colto di Platone e neanche quello degli autori contemporanei ai vangeli come Filone, Giuseppe Flavio o Plutarco. Secondo Carmignac è una lingua che ha una peculiarità ben precisa, quella di essere un calco greco di espressioni e modelli sintattici ebraici, proprio come se lo scrittore avesse voluto letteralmente ricalcare parola per parola un testo ebraico. Alle stesse conclusioni sono arrivati per altro anche altri autori, per esempio Claude Tresmontant [vi], Robert Lindsey [vii], l’ebreo Pinchas Lapide [viii] ed altri studiosi di fama mondiale.

In effetti bisogna dire che anche per chi non è né un filologo né un ebraista i numerosi esempi che Carmignac propone a sostegno della sua tesi sono davvero molto convincenti, esistono intere frasi o giochi di parole che se prese alla lettera non significano nulla né in greco né nella traduzione italiana , ma che hanno senso comprensibilissimo se tradotte  in ebraico.

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Facciamo qualche esempio, in Luca 1:51 troviamo scritto εποιησεν κρατος εν βραχιονι αυτου che letteralmente significa “ha fatto la forza nel suo braccio”, una frase incomprensibile sia in greco che in italiano, dove non significa nulla, e che si spiega solo ipotizzando che lo scrittore traducesse parola per parola la formula ebraica molto frequente nella Bibbia ‛asāh  hayl che dovrebbe essere tradotta “egli ha fatto prodezze con il suo braccio”.  La domanda è molto semplice: se il vangelo di Luca, come sostiene la critica letteraria, è stato composto intorno agli anni 80 del primo secolo, da un greco per i greci, che senso avrebbe avuto usare un’espressione incomprensibile in quella lingua e che ricalcava una espressione tipicamente semitica?

Interessante anche l’analisi di Luca 9:51 dove di nuovo viene usata la strana espressione προσωπον εστηρισεν in una frase che tradotta letteralmente suonerebbe come “ed egli fissò la sua faccia per partire a Gerusalemme” frase anche in questo caso senza senso sia in greco che in italiano ma che in ebraico acquista un suo preciso significato, perché quello è un tipico modo di dire semitico che sta per “egli decise fermamente di partire verso Gerusalemme”.

lc9Il ricorso all’ipotesi di una traduzione potrebbe anche spiegare espressioni altrimenti enigmatiche, per esempio in Marco 9:49 si legge la dichiarazione di Cristo “poiché ognuno dev’essere salato [halizō] con fuoco” una frase incomprensibile in greco, tanto che esistono diversi manoscritti che aggiungono la parola “ogni sacrificio” per dare un senso al testo che sembrerebbe davvero un assurdo linguistico. Anche qui Carmignac spiega che la frase acquista un senso se si tiene conto che nei testi di Qumran la radice della parola ebraica per sale [mālah] indica tanto “salare” quanto “vaporizzare”, parola con cui il testo indicherebbe la completa distruzione prodotta della Geenna.

 Altro passo interessante è quello di Marco 5:13 dove si parla di una mandria di maiali che “si lanciò dal precipizio nel mare, circa duemila d’essi, e annegarono l’uno dopo l’altro”. In effetti un branco di duemila maiali rappresenta un numero inverosimile, dato il carattere poco socievole di questi animali e la vegetazione del Golan, tanto che i critici hanno mosso dei dubbio sull’autenticità dell’ episodio partendo proprio da questo particolare. Ma anche qui ci viene in aiuto il sostrato ebraico dei vangeli, infatti la frase “circa duemila” [in ebraico ke’alāpīm] con il cambio di una sola vocale [ka’alāpīm] significa “a branchi” ovvero dovremmo leggere non che affogarono “circa duemila” maiali ma più realisticamente che gli animali affogarono “a branchi” o “a frotte”. Se teniamo conto che in ebraico non si usavano le vocali possiamo facilmente capire l’errore del traduttore.

Ancora in Mt 26:6-7 e in Mc 14:3 viene detto che la cena di Betania si svolge nella casa di Simone il lebbroso, ma anche non sembra molto credibile che Gesù e i discepoli siano andati a casa si un lebbroso [ix]. Naturalmente potrebbe trattarsi di qualcuno che era stato precedentemente sanato dalla lebbra, ma Carmignac fa notare che in ebraico “il lebbroso” si scrive ha-Zarua. Ora questa parola è molto simile all’ebraico ha-Zanua (cambia una sola consonante e le due lettere sono graficamente abbastanza simili) che ha però un significato molto diverso, cioè l’umile, il pio. Così per una svista del traduttore Simone il pio potrebbe essere diventato Simone il lebbroso.

Un altro esempio lampante di semitismi di traduzione si trova nei passi paralleli di Matteo 13:17 e di Luca 10:24. I due versetti sono identici tranne che mentre il primo dice “molti profeti e giusti [dikaioi] desiderarono vedere le cose che voi vedete” il secondo dichiara “Molti profeti e re [basileis] desiderarono vedere le cose che voi vedete”. La sola differenza tra Matteo e Luca è che mentre uno usa l’espressione “e giusti” il secondo usa l’espressione “e re”.  Apparentemente non vi è nessun motivo letterario e nemmeno teologico per tale ritocco. Allora perché i due evangelisti riportano la frase in modo differente? La critica usa simili argomenti per sostenere la scarsa affidabilità storica degli evangelisti e quindi che questo dimostrerebbe come le parole di Gesù siano state rielaborate nel corso del tempo. Ma anche qui è sorprendete le conclusioni a cui si arriva  con una retroversione in ebraico dove ci si accorge che l’espressione usata da Matteo corrisponde all’ebraico WYSRYN e quella usata da Luca a WSRYM. Poiché la waw [ו] e la yod [י] si scrivono quasi allo stesso modo l’occhio di un copista poteva facilmente confonderle e leggere W invece  che WY. Dunque mentre lo scriba di Matteo tradusse correttamente “e giusti” quello di Luca fece un errore inconsapevole, lasciandoci questa lettura come traccia di una possibile traduzione dal testo originale ebraico.

Naturalmente con questo non vogliamo affermare che i vangeli  sinottici siano con certezza una traduzione di testi originali in ebraico, questo richiederebbe altri studi e la conferma dell’archeologia e della papirologia. Semplicemente si vuole far osservare che l’ipotesi di retrodatazione dei vangeli non si basa su argomenti apologetici o campati in aria, ma si basa su serie considerazioni filologiche. Sarebbe davvero assurdo pensare che tanti semitismi, e per lo più di questo tenore, fossero presenti in documenti che, secondo la critica letteraria, sarebbero stati scritti in ambiente ellenistico alla fine del primo secolo, se non addirittura alla metà del secondo, come si ipotizza per alcune lettere [x]. Quello che secondo noi è grave è il fatto che la critica letteraria, in nome di un non ben definito dogma razionalista, diventa ferocemente antiscientifica ignorando o sottovalutando tutti quegli argomenti che invece, a noi, sembrano molto importanti ai fini della datazione dei vangeli.

Stefano Pizzorni

[i] R. Bultmann, Die Geschichte der synoptischen Tradizion, Göttingen 19708, p. 394.

[ii] Sulla debolezza di questo argomento, anche dal punto di vista storico critico, si può leggere P. Sacchi, Gesù e la sua gente, Cinisello Balsamo (MI) 2003, pp 218-223 e soprattutto J.A.T. Robinson, Redating the New Testament, London, SCM Press, 1976.

[iii] Una raccolta di interviste, articoli e commenti in proposito in S. Alberto (a cura di), Vangelo e storicità. Un dibattito, Milano 1995, pp. 223-282.

[iv] J. Carmignac, La nascita dei Vangeli sinottici, trad. it., Cinisello Balsamo (MI) 1985.

[v] Eusebio di cesarea, Storia Ecclesiastica, III, 39, 15-16.

[vi] C. Tresmontant – Le Christ hébreu. La langue et l’âge des Évangiles, Paris 1983.

[vii] R.L. Lindsey, Jesus Rabbi & Lord, Warwick RI, 1990.

[viii] P. Lapide, Bibbia tradotta Bibbia tradita, trad. it., Bologna 1999.

[ix] Lev 13:46, 2Re 7:3 ma anche Giuseppe Flavio, Contra Apionem 1:31.

[x] Vedi per esempio O. Cullmann, Introduzione al Nuovo Testamento, trad. it., Bologna, 1968.