Il sapore dell’ “originale”

Abituato allo studio e alla lettura di testi che frazionano artificiosamente le Sacre Scritture e che offrono una pseudo autenticità evangelica agglomeratasi da varie fonti,  non posso che dirmi piacevolmente colpito dall’ultima fatica di Andrea Filippini:

Protocristianesimo – Il cristianesimo del I secolo alla luce degli scritti neotestamentari, edito da Ginevra Bentivoglio Editore.

Si tratta di un libro che ha avuto la capacità di proiettarmi ai primi decenni del secolo scorso, quando ancora era vivo quel genere letterario strettamente collegato al conservatorismo evangelico che dava risalto ai diversi problemi collegati al razionalismo biblico.

Sono passati decenni e tali problemi, più che risolti, sono stati “soffocati” dalla moderna analisi critica.

Filippini non ha timore di riproporre certi temi cari allo storico quanto all’uomo di fede, come, ad esempio, quello relativo allo sviluppo e strutturazione delle primitive comunità cristiane. La domanda alla quale Filippini vuole dare risposta attraverso il suo libro è: come era organizzato il cristianesimo primigenio e quali erano le sue peculiarità?

È necessario evidenziare l’ottica con la quale l’autore si accosta ai testi. Filippini dichiara nell’introduzione:

Nella mia esposizione […] considererò tutti i libri appartenenti al Nuovo Testamento come redatti direttamente dagli apostoli e dai discepoli a cui da sempre sono attribuiti.

Faremmo un errore ad etichettare questa scelta come un “approccio semplicistico”. L’autore mostra di conoscere le moderne tesi della critica biblica e decide volutamente di ignorarle per accostarsi ai vangeli in maniera “semplice”. Semplice non significa semplicistico. Semplice, così come è semplice il messaggio evangelico. Semplice, cioè senza tutte quelle sovrastrutture esegetiche che appartengono più ad una “moda” letteraria che alla Parola di Dio sic et simpliciter.

Naturalmente Filippini cita anche altre fonti storico-patristiche (Tertulliano, Giustino, ecc.) a sostegno del suo punto di vista. Ma tali autori vengono citati solo laddove convergono con la narrazione neotestamentaria. Si tratta di una selezione aprioristica delle fonti, che si muove lungo la linea di confine che separa l’oggettiva ricostruzione storica (se mai ne esistesse una) da una ricostruzione a proprio uso e consumo?

La risposta a questa domanda è decisamente negativa. L’oggetto in analisi è la comunità proto cristiana del primo secolo e i documenti in esame sono quelli che, da un punto di vista conservatore, sono databili al primo secolo. Le fonti successive vengono citate solo dove si può scorgere un’eco della “prassi” proto cristiana. L’autore è consapevole che tale prassi sia mutata col trascorrere del tempo, ma il suo obiettivo è tentare di delimitarne i contorni prima che questi cambiamenti iniziassero a modificarla.

Ciò che maggiormente mi ha convinto, parlo da un punto di vista meramente documentale, è il ruolo della Chiesa di Gerusalemme quale “ente direttivo”.

Non ci troviamo davanti ad una “accozzaglia di persone disorganizzate” che prende “forma” con il trascorrere dei secoli. Una comunità cristiana in grado di organizzare e condurre a buon fine una “colletta internazionale”, così come descritta nel libro degli atti, può realmente considerarsi una comunità di “dilettanti allo sbaraglio”?

L’autore ribalta la visione comune e si mostra convincente nel descrivere una devoluzione della comunità delle origini: da un’iniziale struttura finemente organizzata da Gesù e dagli apostoli ed incentrata sull’amore, alle odierne “organizzazioni religiose sedicenti cristiane” che paiono così lontane dal modello originale.

Un punto che desidero evidenziare, e che non mi vede completamente d’accordo, è la sottile connessione che diversi autori, tra cui anche Filippini, sembrano voler proporre fra il celibato (obbligatorio e non biblico) della Chiesa Cattolica e gli atti di pedofilia di alcuni sacerdoti. Si tratta comunque di un’affermazione parentetica che non cambia la validità della ricostruzione storica del nostro autore.

Concludo raccomandando vivamente il testo di Filippini a tutti coloro che vogliono riscoprire quell’antico sapore delle origini:  il valore della “semplicità” evangelica che fa dire ai testi ciò che essi “semplicemente” dicono.

Francesco Arduini