La desolazione biblica di Israele

Francesco Arduini

Su Accademia.edu, noto sito web dedicato alla condivisione di scritti prevalentemente di natura scientifica, è ospitato un articolo dal titolo “Le desolazioni bibliche di Israele – secondo Daniele e secondo Zaccaria” a firma di Michele Manher, collaboratore di diverse riviste italiane ed estere ed autore di libri e articoli dai soggetti più variegati.

Nel succitato articolo, Manher si avventura nell’analisi di alcuni passaggi tratti dal libro biblico di Daniele e di Zaccaria che, a parere dell’autore, descriverebbero in maniera poco chiara ciò che accadde nel periodo storico relativo alla distruzione del famoso tempio salomonico dedicato al Dio YHWH, distruzione avvenuta per opera del babilonese Nabucodonosor.

Egli cerca di condurre i suoi lettori alla conclusione che la durata del periodo di esilio babilonese, subìto dagli ebrei, sia da intendersi simbolicamente e che i “settant’anni” di esilio sarebbero un’approssimazione ad usum et abusum degli scrittori biblici; questi ultimi da identificarsi non tanto nella figura del profeta Daniele e Zaccaria (quand’anche essi avessero realmente scritto alcune parti dei libri conosciuti con il loro nome) quanto, soprattutto per il primo, con un “ignoto redattore vissuto nel periodo maccabaico”. Tesi non certo nuova nel panorama della critica biblica.

In questo articolo risponderò punto su punto alle affermazioni di Manher mostrando come, nella migliore delle ipotesi, si renda necessario abbandonare certe apodittiche verità a favore di un approccio più cauto. Le informazioni che seguono offriranno a tutti alcune risposte forse poco conosciute a quelle critiche che generalmente vengono rivolte a specifici libri dell’Antico Testamento. Risposte che definirei alternative più che sostitutive, essendo pienamente consapevole (come dovremmo esserlo tutti) che le Scienze Bibliche non hanno ancora chiarito l’insieme dei problemi storici connessi.

Le “caotiche” considerazioni preliminari

Prima di introdurre le sue considerazioni principali relative ai settant’anni di esilio che, secondo alcuni libri della Bibbia, gli ebrei subirono per mano dei babilonesi, Michele Manher presenta al lettore un quadro abbastanza caotico del contesto biblico evidenziando come, a suo dire, nel versetto 2 di Zaccaria capitolo 7 non si capisca realmente cosa vi sia scritto. Esaminiamo questo passaggio:

Quelli di Betel avevano mandato Sareser e Reghem-Melec con la loro gente per implorare il favore del SIGNORE [1]

(Zaccaria 7:2 – NR)

Manher, riportando anche il testo ebraico all’interno del suo articolo, evidenzia il “problema” legato alla parola Betel, che può “significare sia la città di Betel sia semplicemente la ‘casa di Dio’, cioè il Tempio di Gerusalemme”. Poi sostiene che la confusione aumenti a causa del fatto che in alcune traduzioni bibliche si legge “Betel inviò Shareser” mentre in altre si legge “inviarono alla casa di Dio Shareser”. In ultimo, secondo alcune Bibbie, Regehm-Melec sarebbe un “nome di persona”, e quindi ci troveremmo davanti a due individui (“Shareser e Regem-Melech”); secondo altre versioni bibliche, il personaggio sarebbe uno solo “Shareser ufficiale (o amico) del re”.

Le perplessità di Manher non hanno una stretta attinenza con il problema legato alla durata dell’esilio, ma il lecito sospetto è che esse servano per instillare nella mente del lettore una certa idea di inaffidabilità di tutto il contesto narrativo. Leggendo il testo direttamente dall’ebraico e conoscendo lo stile di scrittura semitico, con i suoi frequenti parallelismi sinonimici, a mio parere si giunge alla conclusione che Betel non può significare il “Tempio di Gerusalemme” per svariati motivi, e tutti decisamente buoni:

  • il primo è che in tutto l’Antico Testamento non ci si riferisce mai al Tempio di Gerusalemme con la precisa espressione “Beth-El”. In alcuni versetti biblici si usa “beth-Elohim” per indicare il Tempio di Yhwh (cfr Salmo 42:4). Gli agiografi però evitano accuratamente di indicare il Tempio con l’espressione “Beth-El”, evidentemente a causa del fatto che tale parola richiamava alla mente la città di Betel, che durante il regno di Geroboamo divenne un centro di culto in aperta opposizione al culto di Yhwh. La sola possibile sovrapposizione dei due significati sarebbe stata considerata blasfema agli orecchi di un ebreo.
  • il secondo è che nel versetto immediatamente successivo, l’agiografo usa un termine diverso per indicare proprio il Tempio, cioè “Beth-Yhwh”.
  • il terzo è che il parallelismo con “ha’àrets” (il paese) contenuto nel versetto 5 del medesimo capitolo, rende chiara l’identificazione di Betel con una precisa area geografica, o territorio (ha’àrets).

Del resto, consultando i primi capitoli del libro di Esdra, si apprende che proprio Betel fu una delle città ristabilite nel paese d’Israele dai Giudei che eran tornati dall’esilio di Babilonia (cfr. Esdra 2:28; 3:1). L’importanza della città di Betel la si deduce anche dal fatto che, dopo Gerusalemme, è la città menzionata più spesso di qualsiasi altra. L’intera frase (Zaccaria 7:2)  presenta un costrutto al singolare. Quindi “Betel inviò Shareser” sembra essere la traduzione corretta.

Che dire dei due personaggi “Shareser” e “Regem-Melech”? Si tratta realmente di due personaggi oppure ci troviamo dinanzi ad una singola persona? Secondo la International standard Bible Encyclopedia [2], il versetto presenta alcune “difficoltà”. E siccome il nome “Regem-Melech può significare “amico del re”, alcune traduzioni superano la difficoltà considerando tale termine come qualifica di Shareser. Ma anche il nome Shareser potrebbe essere reso con il suo significato assuero di “funzionario del tesoro”. Una resa coerente dovrebbe o tradurli ambedue o traslitterarli entrambi. Potrebbe effettivamente trattarsi di un unico personaggio se ci trovassimo alla presenza della cosiddetta waw pleonastica, da intendersi come coniugazione esplicativa. Non trovo però alcuna stringente ragione capace di orientare un traduttore verso una simile scelta. La scelta di traslitterare entrambi i termini come nomi sembra la migliore. Lo stesso commentario di Gesenius [3], che del resto Manher cita in argomentazioni successive come fonte di consultazione, alla voce “Regem-melech”, riporta:

dove “pr. n. m.” sta per “proper name masculine”, ovvero “nome proprio maschile”. La realtà dei fatti è che il senso del versetto è chiarissimo: venne inviata una delegazione affinché le autorità religiose fossero interrogate sul da farsi.

I settant’anni di desolazione

A partire dal versetto successivo, per usare le parole di Manher, “leggiamo qualcosa di interessante”:

[…] e per parlare ai sacerdoti della casa del SIGNORE degli eserciti e ai profeti, in questo modo: «Dobbiamo continuare a piangere il quinto mese e a digiunare come abbiamo fatto per tanti anni?»

(Zaccaria 7:3)

La risposta di Dio giunse attraverso il suo profeta, e possiamo leggerla nel versetto 5:

Quando avete digiunato e fatto cordoglio il quinto e il settimo mese durante questi settant’anni, avete forse digiunato per me, proprio per me?

(Zaccaria 7:5)

Ma cosa accadde in queste particolari date? Il 10° giorno del 5° mese del suo 19° anno di regno, Nabucodonosor fece incendiare Gerusalemme e il Tempio; mentre il 7° mese del medesimo anno, il governatore Ghedalia (che con il consenso di Nabucodonosr governava su quegli ebrei rimasti nel paese di Giuda dopo la distruzione di Gerusalemme) venne assassinato. Perché il 19° anno di regno è così importante? Perché esso segna l’inizio del periodo di “settant’anni” di desolazione.

Zaccaria proferisce queste parole nel 518 a.C. e, secondo alcuni, il versetto 5 sembrerebbe indicare che proprio in quell’anno sarebbero scaduti i settant’anni. Secondo Manher, è addirittura “del tutto evidente” che questi settant’anni devono essere ancora in corso e lo saranno fino al 515 a.C., quando la ricostruzione del Tempio verrà ultimata. Ma se i “settant’anni di desolazione” con cui Dio castigò il popolo di Israele non erano ancora scaduti, verrebbe a mancare la motivazione che spinse gli abitanti di Betel ad interrogarsi sulla necessità di continuare o meno il cordoglio. Infatti essi già sapevano che, per volontà di Dio, avrebbero dovuto fare cordoglio per tutti “questi settant’anni”! (cfr. Geremia 25.10,11).

È molto più coerente supporre che i settant’anni fossero già scaduti e che, non essendo ancora stato ricostruito il Tempio, gli abitanti di Betel non sapessero come comportarsi. Smettere di fare cordoglio e di digiunare, in accordo con quanto dichiarato dal profeta Geremia? Oppure continuare fino al completamento del Tempio? Se oltre al versetto appena citato, ve ne fosse un altro la cui lettura risultasse incoerente con il quadro dipinto da Manher, la questione diventerebbe ancora più seria. Ebbene il versetto c’è:

Allora l’angelo del SIGNORE disse: «SIGNORE degli eserciti, fino a quando rifiuterai di avere pietà di Gerusalemme e delle città di Giuda, contro le quali sei stato indignato durante questi settant’anni?

(Zaccaria 1:12)

Queste parole vengono pronunciate nel 520 a.C. (cfr. Zaccaria 1:7). A questo punto, Michele Manher afferma: “Sembra dunque che stiamo parlando più di un numero simbolico che reale”.

Una simile dichiarazione è del resto comprensibile: l’unico modo con il quale Manher riesce a giustificare queste espressioni apparentemente discordanti, pronunciate a distanza di due anni una dall’altra, è affermando che il periodo di tempo sia simbolico; non si tratterebbe cioè di settant’anni veri, ma di un imprecisato periodo di tempo la cui durata troverebbe ragioni nella tradizione mistica, cabalistica e numerologica del popolo di Israele. Per dare più forza a questa sua conclusione, Manher fa un elenco di ricorrenze bibliche [4] dove, a suo dire, il numero 70 assume un chiaro valore simbolico. Mi è d’obbligo evidenziare una fallacia nel ragionamento di Manher: la fallacia logica è quella nota con il nome di “non sequitur”. Anche se ci fossero altri episodi in cui il numero 70 assumesse un valore simbolico, per sostenere ciò che sostiene, Manher dovrebbe dimostrare che in questo specifico episodio (e non in altri) tale numero sia da intendersi simbolicamente. Pur ipotizzando che il numero 70 in tutti gli episodi da lui elencati avesse un valore simbolico (e non mi è chiaro perché, ad esempio, gli anziani chiamati a rappresentare Israele non potessero realmente essere in numero di 70 (cfr. Numeri 11:16), non si potrebbe assolutamente escludere, sulla base di tale premessa, che il periodo di desolazione fosse durato realmente 70 anni. Sempre che Manher non voglia relegare il numero 70 esclusivamente nella sfera del simbolismo escludendo aprioristicamente ogni possibile valenza letterale Anche il numero 12 ha un significato simbolico nelle Sacre Scritture; secondo la logica di Manher dovremmo dedurre che i figli di Giacobbe non furono veramente 12, né che si trattasse realmente di 12 tribù di Israele, né che furono 12 gli apostoli di Gesù, ecc.. Sembrerebbe invece che, a differenza degli scrittori extra-biblici, per gli agiografi la valenza simbolica sia il più delle volte connessa al suo valore letterale.

Ci sono però ragioni ancora più stringenti che portano a conclusioni diverse da quelle presentate da Michele Manher:

  • La prima è una ragione linguistica: non vi è nulla, nè in Zaccaria 1:12, nè in Zaccaria 7:5, che faccia pensare che i settant’anni fossero ancora in corso. La particella dimostrativa “questi” prima di “settant’anni” non indica che il periodo fosse quasi giunto al termine, ma semplicemente che la durata di quel periodo era nota al grande pubblico. Né le forme verbali, né la particella dimostrativa, supportano la conclusione di Manher.
  • La seconda ragione è che altri scrittori biblici (Daniele, Geremia, il Cronista) indicano senza ombra di dubbio che il periodo di settant’anni si riferiva alla desolazione di Gerusalemme e del paese, e non alla ricostruzione del Tempio:

Tutto questo paese sarà ridotto in una solitudine e in una desolazione

(Geremia 25:11)

Secondo i profeti, i settant’anni sarebbero dovuti finire al termine dell’esilio, cioè nel 538 a.C. e non al tempo di Zaccaria, quando erano già trascorsi più di venti anni. Un’attenta lettura del passo già citato di Zaccaria 1:12, sembra confermare questa conclusione. L’angelo chiede al Signore “fino a quando”, cioè “per quanto tempo ancora” Dio non avrebbe mostrato misericordia ai giudei, permettendo loro di riedificare il Tempio? Se, come afferma Manher, i settant’anni non erano ancora scaduti, per quale motivo l’angelo avrebbe dovuto porre una simile domanda? L’unica possibile ragione consiste nel fatto che il periodo fosse già scaduto e che tutti si interrogassero in merito alla restaurazione del Tempio (cfr Zaccaria 1:16).

Quando la delegazione di Betel formulò la domanda: “Dobbiamo continuare a piangere il quinto mese e a digiunare come abbiamo fatto per tanti anni?” (Zaccaria 7:3) non poteva riferirsi al solo periodo di settant’anni perchè, come accennato in precedenza, i profeti avevano già reso noto quelle che erano le volontà di Dio sul comportamento da seguire durante questo periodo. Evidentemente, l’espressione “tanti anni” comprende i diciassette anni successivi al rimpatrio, avvenuto nel 538 a.C., durante i quali i giudei prolungarono i loro digiuni. È solo la risposta di Dio, attraverso le parole del profeta, a limitare il riferimento ai settant’anni precisi, con una frase che è costruita con verbi coniugati al passato, a conferma che tale periodo era già scaduto. Notiamo come rendono Zaccaria 7:5 diverse traduzioni bibliche [5]:

Quando voi digiunaste e piangeste il quinto e il settimo mese in questi settanta anni, faceste forse per me il vostro digiuno? [6]

Quando voi digiunaste e piangeste il quinto e il settimo mese, anche in quei settant’anni, lo faceste per me, proprio per me? [7]

  • Un’ulteriore ragione è che Daniele sostiene di aver compreso quando sarebbe scaduto questo periodo:

io, Daniele, meditando sui libri, vidi che il numero degli anni di cui il SIGNORE aveva parlato al profeta Geremia e durante i quali Gerusalemme doveva essere in rovina, era di settant’anni

(Daniele 9:2)

Daniele, studiando gli scritti di Geremia, afferma di aver compreso esattamente quando sarebbero scaduti i settant’anni. Ma come avrebbe potuto calcolarne la scadenza se non avesse avuto la convinzione che il periodo fosse da intendersi letteralmente? Michele Manher azzarda una risposta a questa domanda. Prima di formularla, però, ritiene necessario screditare Daniele con le note argomentazioni della moderna critica. Le esamineremo tutte, una ad una, per poi commentare la sua spiegazione del passo di Daniele sopracitato.

Quell’imbroglione di “Daniele”. O forse no.

Una serie di vistosi e grossolani errori storici […]  rende problematica l’attribuzione di un valore certo ad alcune affermazioni contenute nel libro

Queste sono le esatte parole con le quali Manher inizia la sua argomentazione in merito al libro di Daniele, la cui ultima stesura, come insegna anche la moderna critica biblica, sarebbe da attribuirsi ad un ignoto redattore del periodo maccabaico, intorno al 165 a.C. Esaminiamo quindi questi “grossolani errori”, a partire da quanto scritto in Daniele capitolo 5 versetto 1:

Il re Baldassar fece un grande banchetto per mille dei suoi grandi e bevve vino in loro presenza.

(Daniele 5:1)

Ora proseguiamo con il versetto 2:

Mentre stava assaporando il vino, Baldassar ordinò che portassero i vasi d’oro e d’argento che Nabucodonosor, suo padre, aveva preso dal tempio di Gerusalemme, perché il re, i suoi grandi, le sue mogli e le sue concubine se ne servissero per bere

(Daniele 5:2)

Ed ecco svelato il grossolano errore di questo “imbroglione” che voleva farsi passare per Daniele ma che, evidentemente non essendo vissuto all’epoca dei fatti, non conosceva la storia babilonese. Secondo Manher,Baldassar non fu mai “re” e soprattutto non era il figlio di Nabucodonosor, ma di Nabonedo!

È spiacevole notare che un ricercatore attento come Michele Manher abbia tralasciato di informare i suoi lettori dell’esistenza di una tavoletta cuneiforme, conservata al British Museum ed archiviata come BM 38299, sulla quale si legge testualmente:

Egli [Nabonedo] affidò l’esercito al figlio più anziano, il primogenito, pose le truppe di tutto il paese sotto il suo comando. Gli lasciò tutto, conferendo la regalità a lui

Sì, c’è scritto proprio che Nabonedo conferì la “regalità” (šarrûtu) a Baldassar. Albert Olmstead, nella sua opera fondamentale sull’impero persiano, conferma che Nabonedo “aveva lasciato il campo al suo primogenito, prendendo fra le sue, le mani di costui e conferendogli piena sovranità” [8]. È vero che nessun documento usa l’esatta espressione ufficiale “Re di Babilonia” per Baldassar, ma Daniele non stava certo compilando una “lista ufficiale” dei titoli dei regnanti; a Daniele (così come a noi) ciò che importava erano i fatti, e Baldassar esercitava di fatto l’autorità regia. Ma c’è di più: da Erodoto in avanti, nessuno storico greco menziona il nome di Baldassar. Per tale motivo, nei secoli scorsi (e precisamente fino al 1861), i critici della Bibbia lo considerarono come una figura partorita dalla fantasia di “Daniele”. Vorrei chiedere a Manher (che prendiamo a modello del classico critico biblico) come ritiene possibile che lo pseudo-Daniele vissuto nel 165 a.C. potesse essere a conoscenza di questi particolari, visto che la figura di Baldassar fu dimenticata sin dai tempi di Erodoto, cioè dal 450 a.C. come minimo. Diciamo che, come primo “grossolano errore”, mi sarei aspettato qualcosa di un po’ più convincente.

Ma ora passiamo al secondo errore in elenco: Baldassar non era figlio di Nabucodonosor.

Manher ha scritto diversi articoli sulla storia dell’antico Egitto. Sono certo che il papiro Westcar non gli è sconosciuto. In questo papiro vengono rivolte le seguenti parole a Cheope:

Io riferisco alla tua maestà un prodigio che si è avverato al tempo di tuo padre il re Nebka

Nebka non era il padre di Cheope. Non era nemmeno suo nonno, nè il suo bis e neppure trisnonno. Nebka apparteneva alla terza dinastia e regnò più di un secolo prima di Cheope. Non di rado i documenti storici ci mostrano come la terminologia “padre/figlio” si riferisca non tanto ad una qualche discendenza carnale, quanto alla successione ad un medesimo incarico. Se a tali considerazioni, onestamente già sufficienti a rispondere ampiamente alla critica mossa, aggiungiamo il fatto che Nabonedo potrebbe avere sposato una figlia [9] di Nabucodonosor, e che quindi quest’ultimo sarebbe stato il “nonno” di Baldassar, allora il secondo “grossolano errore” si rivelerebbe decisamente inesistente. Giova ricordare che per un semita la terminologia usata in relazione al “figlio” era totalmente sovrapponibile a quella utilizzata per il “nipote” [10].

Che vi sia “qualcosa che non va”, secondo la lettura critica di Manher, sarebbe dimostrato anche dalla presenza di alcuni versetti in aramaico. Lasciatemi precisare che il libro di Daniele è praticamente scritto per una buona metà in lingua aramaica (dal cap. 2 verso 4 alla fine del cap. 7). L’uso di questa lingua proverebbe, a detta dei critici, una stesura del libro in epoca maccabaica. Per usare le parole di Gleason L. Archer, alla cui brillante opera rimando in nota, “la pretesa che l’aramaico e l’ebraico prima dell’esilio si siano conservati in compartimenti stagni tra loro indipendenti, è stata screditata dalle più recenti scoperte archeologiche” [11].

Ma con Daniele siamo addirittura in periodo post-esilico. Infatti, dal momento che Daniele visse per diversi anni sotto il governo persiano, e che la composizione finale del suo libro potrebbe essere avvenuta in tale periodo, non si capisce per quale motivo Daniele non avrebbe potuto scrivere alcune parti del suo libro in quella che ormai era la lingua ufficiale dell’impero. Affrontare la lezione linguistica legata al libro di Daniele ci porterebbe lontano dalle intenzioni di questo articolo. Ciò che mi preme sottolineare è l’opinione, ormai sempre più diffusa, che possiamo leggere nell’Expositor’s Bible Commentary secondo cui il linguaggio aramaico ed ebraico di Daniele, se paragonato ai testi del periodo ellenistico “prova in maniera conclusiva che la data del secondo secolo e la provenienza palestinese del libro di Daniele non possono più essere sostenuti senza fare violenza alle scienze linguistiche” [12]. Esprimendosi in maniera più moderata, Kenneth Kitchen afferma semplicemente che “la data del libro di Daniele, in breve, non può essere decisa basandosi solo sul campo linguistico” [13].

Ma per quale motivo, si chiedono i critici, Daniele avrebbe dovuto scrivere circa metà del suo libro in lingua ebraica e metà in lingua aramaica? Non dimostra questo che il libro è semplicemente un “collage” con testi di un periodo successivo? No. La risposta corretta è invece abbastanza ovvia: la parte scritta in ebraico ha a che fare con questioni legate al popolo giudaico (il sacrificio continuo, i peccati di Israele, il messia, ecc…) mentre la parte scritta in aramaico tratta questioni legate all’impero persiano e ai cittadini di Babilonia, evidentemente perché Daniele ci teneva che questa sezione fosse facilmente accessibile ai “gentili”.

L’elenco di quelli che, secondo Manher, sono “grossolani errori” o comunque prove di una composizione ad opera dello pseudo-Daniele, continua. Ne menziono ancora un paio:

  • la teoria della resurrezione dei morti è una dimostrazione che il libro fu scritto in epoca maccabaica.
  • in Daniele 9:1 leggiamo “Nell’anno primo di Dario, figlio di Serse”. Ma era Serse ad essere figlio di Dario, e non viceversa, e Dario compare sulla scena nel 522 a.C., quando Daniele era invece ormai scomparso.

Il tutto contornato da frasi tipo (cito testualmente):

– non ci possono essere dubbi sulle manipolazioni subite da questo libro;

– ci troviamo di fronte a notizie che definire puro parto di fantasia è poco;

– ecc… ecc…

Con il dovuto rispetto, sembra che la confusione alberghi più nella mente dei critici, che nella “penna” di Daniele. Esaminiamo ogni punto sopracitato.

La dottrina della resurrezione

Nessuno nega che l’escatologia conobbe un notevole sviluppo nel tardo giudaismo, e che il periodo antico si focalizzasse maggiormente sulle vicende intrastoriche, ma la dottrina della resurrezione e le profezie sull’olam ha ba erano tutt’altro che rare. Il profeta Isaia proclamava:

Rivivano i tuoi morti! Risorgano i miei cadaveri! Svegliatevi ed esultate, o voi che abitate nella polvere!

(Isaia 26:9)

Ed Ezechiele scriveva:

Voi conoscerete che io sono il SIGNORE, quando aprirò le vostre tombe e vi tirerò fuori dalle vostre tombe, o popolo mio!

(Ezechiele 37:13)

E nel libro di Giobbe si poteva leggere:

Ma io so che il mio Redentore vive e che alla fine si alzerà sulla polvere. E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò a me favorevole; lo contempleranno i miei occhi, non quelli d’un altro; il cuore, dal desiderio, mi si consuma.

(Giobbe 19:25-27)

Potremmo continuare ancora a lungo ma credo che il senso sia chiaro: non esiste alcun valido motivo per sostenere che Daniele non potesse affrontare tematiche legate alla resurrezione.

Dario… chi?

Innanzitutto, tornando alla lettura diretta dell’ebraico, Daniele scrive testualmente che Dario era “figlio dell’Assuero”. Che poi questo Assuero sia da identificarsi con Serse I, è  un’affermazione più dogmatica che storica. Notiamo l’equilibrio con il quale si esprime l’enciclopedia Treccani:

Assuero (gr. Ασσοηρος) Nome di un personaggio biblico menzionato in Ester, Esdra, Tobia e Daniele. Nell’A[ssuero]. di Ester ed Esdra è da ravvisare forse Serse I di Persia, i cui rapporti con gli Ebrei sono descritti nel libro di Ester. L’A[ssuero] di Tobia è Ciassare di Media, incerta è l’identità di quello di Daniele [14] (corsivo aggiunto).

Ad vocem

L’identità dell’Assuero menzionato da Daniele viene dichiarata “incerta”. L’unica cosa che invece appare certa, purtroppo, è che Manher vuol far credere che Daniele abbia confuso Dario il Medo con Dario il Persiano. Daniele invece sembrava avere le idee piuttosto chiare:

– specificò che il Dario di cui stava parlando apparteneva alla dinastia dei Medi. (cfr Daniele 9:1; 11:1)

– specificò che nel suo primo anno di regno, Dario il Medo aveva 62 anni. (cfr Daniele 5:31)

– specificò che “fu fatto” re, subordinando quindi la sua autorità a quella di un altro monarca. (cfr Daniele 9:1)

Ma come si può anche solo avanzare l’ipotesi che Daniele abbia confuso questo Dario con il padre di Serse I? Il padre di Serse era persiano (e non certo medo); il padre di Serse salì al trono in giovane età (non certo a 62 anni); il padre di Serse non “fu fatto” re da nessuno, ma lo divenne perchè apparteneva alla dinastia achemenide. Daniele ha dato ai suoi lettori tutti i dettagli necessari affinché non confondessero i due personaggi. Ma allora chi era questo Dario il Medo? Secondo alcuni storici, sarebbe da identificarsi con un certo Gobria (o Gubaru), un valoroso generale di Nabucodonosor che decise di allearsi con Ciro, l’imperatore del regno Medo-Persiano. La notte del 13 ottobre del 539 a.C., fu Gobria, con le truppe di Ciro, a entrare in Babilonia e a conquistarla. Fu solo il 29 ottobre che Ciro in persona fece il suo primo ingresso in Babilonia; Gobria fu nominato satrapo e gli venne conferito il potere di nominare funzionari che dovevano rispondere direttamente a lui.

Olmstead afferma:

Per Gobria, il satrapo, la provincia era ufficialmente denominata “Babirush”; per la gente del posto era, invece, “Babilonia e Ebir-nari”, il nome assiro per la regione “al di là del fiume” (che per loro era l’Eufrate). Su tutta questa ampia distesa di terra fertile, Gobria governava con poteri simili a quelli di un monarca indipendente. (grassetto aggiunto)

A.T., Olmstead, opera citata, pag. 48.

Secondo William Foxwell Albright,

Gobria, secondo quanto conosciamo da fonti cuneiformi, venne nominato governatore di Babilonia da Ciro, fu governatore di Gordyene (Gutium), ed era quasi certamente un Medo, in quanto nella sua precedente carriera fu generale di Nabucodonosor, l’alleato dei Medi.

A me sembra altamente probabile che Gobria assumesse dignità reale, insieme al nuovo nome di “Dario [15], forse un antico titolo regale iraniano [16]. Secondo un altro storico (J. C. Whitcomb, nel suo Darius the Mede) non fu Gobria ad entrare in Babilonia ma fu un altro personaggio di nome Ugbaru, che morì dopo poche settimane dalla conquista della Città. Dopo la sua morte, Ciro stabilì Gobria come governatore di Babilonia. L’assirologo Donald Wiseman avanzò un’ulteriore ipotesi, e cioè che Dario il Medo sia solo un altro modo per identificare Ciro il Persiano [17].

Per riassumere, ci sono in gioco molte ipotesi. Tutte mostrano punti di interesse notevole, ma presentano anche notevoli lacune. Non sappiamo chi fosse questo Dario il Medo. Per il momento non sono state trovate altre fonti che ne parlano. Se ci è dato imparare una lezione dal passato (mi riferisco alla figura di Baldassare così come a quella di Ponzio Pilato, la cui prima evidenza archeologica risale solo al 1961, e ad ancora altre narrazioni bibliche), conviene abbandonare i toni decisamente troppo categorici utilizzati da Manher per fare spazio ad una maggiore cautela e sobrietà argomentativa.

586 o 605… oppure 607?

Ricordate la domanda che avevamo lasciato in sospeso?

Daniele, studiando gli scritti di Geremia, afferma di aver compreso esattamente quando sarebbero scaduti i settant’anni. Ma come avrebbe potuto calcolarne la scadenza se non avesse avuto la convinzione che il periodo fosse da intendersi letteralmente?

Manher risponde affermando che Daniele si riferiva ad un periodo di settant’anni diverso dal periodo al quale si riferiva Zaccaria. Secondo Manher, per Zaccaria i settant’anni (da contarsi in maniera approssimativa) partirebbero nel 586 a.C. mentre per Daniele (da contarsi in maniera precisa) inizierebbero nel 605 a.C., che corrisponde al primo anno di regno di Nabucodonosor, quando Daniele stesso ed altri nobili e principi furono portati in esilio.

Abbiamo visto come i presupposti in merito a Zaccaria, siano tutt’altro che certi. Ma che dire di Daniele e dell’anno 605 a.C.? Manher scrive:

i 70 anni […] per Daniele sono quelli che decorrono dal 605 a.C., anno della prima deportazione di Ebrei a Babilonia, al 538 a.C. anno in cui Ciro consentì il ritorno in patria a tutti gli Ebrei che erano stati messi in catene da Nabucodonosor nel corso delle sue tre campagne belliche nel regno di Giuda […] contando gli anni […Daniele] vide che ne erano passati 67 […e] decide di restare a Babilonia ancora 3 anni in attesa della visita di quel suo tanto amato e tanto temuto Dio.

Di questa “decisione” che Daniele avrebbe preso di prolungare di 3 anni il soggiorno allo scopo di non far fare “brutta figura” a Dio, il Quale avrebbe altrimenti fatto profetizzare un periodo di 70 anni che non corrispondeva agli avvenimenti, non vi è traccia alcuna se non nella fantasiosa ricostruzione di Manher. La realtà dei fatti è che Daniele cercava di capire dai libri di Geremia (cfr Daniele 9:2) la data a partire dalla quale dovevano essere conteggiati i settant’anni di esilio. È proprio un peccato che nel libro di Geremia non si menzioni alcun esilio avvenuto nel primo anno di Nabucodonosor!

Questo è il popolo che Nabucodonosor condusse in esilio: il settimo anno [18], tremilaventitré Giudei; il diciottesimo [19] anno del suo regno, deportò da Gerusalemme ottocentotrentadue persone; il ventitreesimo [20] anno di Nabucodonosor, Nebuzaradan, capitano della guardia, deportò settecentoquarantacinque Giudei: in tutto, quattromilaseicento persone.

(Geremia 52:28-30) grassetto aggiunto

Come si può notare, Geremia elenca il “popolo che Nabuconodosor condusse in esilio”, e poi ne fa il conto di “tutti”[21]. Non lascia alcuno spazio per un precedente esilio avvenuto nel primo anno di Nabucodonosor.

Ammettiamo che Manher abbia ragione, e che durante il primo anno di Nabucodonosor, Daniele e altri nobili e principi furono portati in esilio. Secondo Manher, tale anno (il 605 a.C.) deve per forza corrispondere al terzo anno di Ioachim (re di Giuda), in quanto nel capitolo 1 del libro di Daniele si legge:

Il terzo anno del regno di Ioiachim re di Giuda, Nabucodonosor, re di Babilonia, marciò contro Gerusalemme e l’assediò […]  Il re disse ad Aspenaz, capo dei suoi eunuchi, di condurgli dei figli d’Israele, di stirpe reale o di famiglie nobili […] Tra di loro c’erano dei figli di Giuda: Daniele, Anania, Misael e Azaria

(Daniele 1:1,3,6)

Ma allora, come è possibile che sempre nel libro di Geremia si dica che nel quinto anno di Ioiachim (cioè due anni dopo il 605 a.C.) tutti i principi si trovavano ancora a Gerusalemme?

L’anno quinto di Ioiachim, figlio di Giosia, re di Giuda, il nono mese, fu pubblicato un digiuno in presenza del SIGNORE, per tutto il popolo di Gerusalemme e per tutto il popolo venuto dalle città di Giuda a Gerusalemme […] scese nella casa del re, nella camera del segretario, ed ecco che là stavano seduti tutti i capi [o principi]: Elisama il segretario, Delaia figlio di Semaia, Elnatan figlio di Acbor, Ghemaria figlio di Safan, Sedechia figlio di Anania, e tutti gli altri capi [o principi] […] Allora tutti i capi [o principi] mandarono Ieudi, figlio di Netania, figlio di Selemia, figlio di Cusci, a Baruc per dirgli: «Prendi in mano il rotolo dal quale tu hai letto in presenza del popolo e vieni». Baruc, figlio di Neria, prese in mano il rotolo e andò da loro

(Geremia 36: 9, 12, 14) grassetto aggiunto [22].

Evidentemente, per Daniele, il terzo anno di Ioiachim non è il 605 a.C.. Quando Daniele menziona il terzo anno di Ioiachim, intende il suo terzo anno di vassallaggio che, secondo la cronologia comunemente accettata, corrisponde al 598/597 a.C. e che, guarda che “strano” caso, è anche il settimo anno di Nabucodonosor, cioè è proprio il primo dei tre esili menzionati da Geremia. La prova del “nove” ce la dà lo stesso libro di Daniele:

Il terzo anno di Ciro, re di Persia, fu rivelata una parola a Daniele

(Daniele 10:2)

Ciro divenne re nel 560 a.C.. Il suo primo anno fu il 559 a.C. e il terzo fu il 557 a.C. Dobbiamo pensare che Daniele si riferisse al 557 a.C., quando Ciro ancora non aveva nemmeno assoggettato i Medi e la sua influenza sul popolo di Israele era pressoché nulla? È inverosimile! Evidentemente Daniele, vivendo a Babilonia, data gli avvenimenti secondo un punto di vista diverso, cioè tenendo conto della situazione in cui si trovava il popolo d’Israele. Il terzo anno di Ciro sarebbe il terzo anno dalla sua conquista di Babilonia (che per Daniele rappresentava la liberazione del suo popolo). Così come il terzo anno di Ioiachim era il terzo anno di vassallaggio a Babilonia (che per Daniele rappresentava la schiavitù per il suo popolo). Mentre Geremia, vivendo in una Gerusalemme non ancora conquistata, datava gli avvenimenti secondo il punto di vista giudaico.

  • Per Geremia, il quarto anno era l’effettivo anno di regno di Ioiachim (cfr Geremia 25:1), cioè il primo di Nabucodonosor. In quell’anno Geremia profetizzò la futura distruzione di Gerusalemme.
  • Per Daniele, il terzo anno era l’anno di vassallaggio di Ioiachim (cfr Daniele 1:1), cioè il settimo di Nabucodonosor.
  • Quindi, sia Daniele che Geremia affermano che nel settimo anno di Nabucodonosor vi fu il primo esilio (cfr Daniele 1:3; Geremia 52:8), quello in cui Daniele fu trasferito a Babilonia.

Affermare che Daniele, studiando proprio il libro di Geremia, abbia compreso che il periodo di settant’anni sarebbe decorso dal 605 a.C., è privo di qualsivoglia evidenza interna, e direi anche esterna, visto che non conosco alcuna tavoletta cuneiforme che menzioni un esilio, per quanto piccolo, datato al primo anno di Nabucodonosor.

Conclusione

La situazione documentale non è affatto chiara. C’è chi crede che l’esilio di settant’anni sia durato solo cinquanta. C’è chi sostiene che questo periodo sia in realtà più di uno e che decorra da molteplici date. Sia nel primo caso, che nel secondo, si è pronti ad etichettare interi capitoli della Bibbia come pseudoepigrafi, affermando che Daniele si sbagliò, che Ezechiele sbagliò sia la profezia su Tiro che quella sull’Egitto, che redattori di epoca maccabaica abbiano fatto confusione; chissà perché, poi, questi redattori intervennero solo su quei passaggi utili a giustificare le interpretazioni dei critici e lasciarono inalterati vistosi “errori” commessi dai profeti sulle profezie che, sempre secondo i critici, non si sono mai verificate. C’è anche chi, come Rolf Furuli, già docente di lingue semitiche all’Università di Oslo, ritiene che la distruzione di Gerusalemme sia avvenuta venti anni prima di quanto afferma la cronologia ufficiale. Con la sua “Oslo hypothesis” [25], Furuli data il diciottesimo[26] anno di Nabucodonosor al 607 a.C., risolvendo, a suo dire, ogni possibile contraddizione interna ai testi biblici.

In questo articolo non ho voluto sposare alcuna tesi, minoritaria o meno che sia. Né tantomeno desidero mettere in risalto qualche chiave di lettura fondamentalista o negare che i libri biblici possano essere stati soggetti a stratificazioni redazionali. Quello che invece ritengo sia necessario acquisire è una certa cautela argomentativa nell’approcciare testi, come quelli biblici (ma non solo), che hanno dato prova di poter superare i millenni conservando inalterato tutto il loro fascino.

Il passato”, come ci insegna Marc Bloch, “è per definizione un dato che nulla più modificherà. Ma la conoscenza del passato è cosa in evoluzione, che senza posa si trasforma e si perfeziona […] È sempre spiacevole dire: ‘non so, non posso sapere’. Non bisogna dirlo se non dopo aver energicamente, disperatamente cercato. Ma ci sono momenti in cui il dovere più categorico dello studioso è quello di arrendersi all’ignoranza e ammetterlo onestamente” [27].

Dinanzi a molteplici episodi narrati nei libri di Daniele e di Zaccaria, lo storico deve arrendersi e ammettere di non avere sufficienti dati per formulare un’ipotesi verificabile. Piuttosto che tentare una ricostruzione che genera contraddizioni dopo contraddizioni, forse è solo necessario riconoscere l’ignoranza del proprio tempo.


[1] Tutte le Scritture dell’Antico Testamento, salvo diversa indicazione, sono prese dalla traduzione Nuova Riveduta.

[2] Consultabile on  line all’url http://www.internationalstandardbible.com

[3] H.W.F., Gesenius, Hebrew-Chaldee Lexicon to the Old Testament, Baker Book House, Grand Rapids, 1979, voce “Regem-melech”; consultabile on line all’url http://www.tyndalearchive.com/tabs/Gesenius/

[4] Genesi 46:27; Esodo 15:27; Esodo 24:9; Salmi 90:10; ecc.. ecc..

[5] Oltre alla Tintori e alla King James Version citate, traducono in maniera simile la Amplified Bible, la Living Bible, la Modern King James Version, la Darby Version, e numerose altre.

[6] E., Tintori (traduz. a cura di), La Sacra Bibbia, Edizioni Paoline, Alba 1945.

[7] C.I., Scofield (a cura di) The Holy Bible – Authorized Version, Oxford University Press, 1945.

[8] A.T., Olmstead, L’impero persiano, Newton&Compton editori, Roma, 1997, pp. 45,46.

[9] Cfr R.P., Dougherty, Nabonidus and Belshazzar, Yale Oriental Series, 1929, p. 63.

[10] Cfr T.C., Mitchell, The Bible in the British Museum: Interpreting the Evidence, British Museum Press, Londra, pag. 89.

[11] G.L. Archer, Introduzione all’Antico Testamento 1, Edizioni Voce della Bibbia, Modena, 1972, pp.157 ss.

[12] AA.VV., Expositor’s Bible Commentary, Ediz. Zondervann, Grand Rapids: Michigan, 1985, vol. VII.

[13] K.A., Kitchen, The Aramaic of Daniel in D.J., Wiseman (a cura di), Notes on Some Problems in the Book of Daniel, The Tyndale Press, Londra, 1965, pp. 31-79.

[14] Consultabile on line all’url http://www.treccani.it/enciclopedia/assuero/, pagina consultata il 27.06.2012.

[15] Nel persiano medievale la parola “dara” significa “re”. Il nome Dario deriva dal persiano “darayavahush” e potrebbe essere un titolo simile a “il regale”.

[16] F., Albright, The Date and Personality of the Chronicler, Journal of Biblical Literature 40 (1921) 104-119.

[17] D.J., Wiseman, Darius the Mede, in Notes on Some Problems in the Book of Daniel, The Tyndale Press, Londra, 1965, pp. 9-18.

[18] Anno in cui furono deportati Daniele, insieme ai principi e ai nobili di Gerusalemme.

[19] Anno in cui Gerusalemme venne conquistata definitivamente, e il suo tempio distrutto. Geremia, insieme ad altri giudei che riuscirono a sfuggire a Nabucodonosr, si rifugiarono in nazioni vicine.

[20] Anno in cui Nabucodonosor catturò e condusse in esilio i giudei fuggiti in altre nazioni. Cfr Antichità giudaiche, X, 181, 182

[21] Il conteggio non combacia con quello riportato nel secondo libro dei Re. Evidentemente Geremia conteggiò solo i capifamiglia.

[22] Così traducono la Hebrew Names Version, la Versione Nuova Diodati, la New King James Version, la Reina-Valera Version, la Revised Standard Version, l’American Standard Version, la Darby Translation, la Webster’s Bible, la Vulgata, la Nuovissima Versione, e numerose altre.

[23] Daniele usa la stessa logica di conteggio degli anni quando parla del secondo anno di regno di Nabucodonosor (Daniele 2:1), che si riferirebbe quindi al secondo anno dopo la conquista effettiva di Gerusalemme, cioè all’effettivo nono anno di Nabucodonosor. Il periodo di tre anni di addestramento che Daniele e i suoi compagni ricevettero a Babilonia comprendeva parte del settimo (quando ci fu il primo esilio), tutto l’ottavo, e parte del nono. Così contando, scomparirebbe un’ulteriore contraddizione evidenziata da Manher. Non a caso sia Daniele 2:1 che Daniele 10:2 sono scritti in ebraico (la sezione aramaica inizia solo dal versetto 4 del cap. 2) questo perché Daniele data gli avvenimenti per gli ebrei focalizzando l’attenzione sulla conquista babilonese di Gerusalemme e sulla sua successiva liberazione ad opera di Ciro il Persiano.

[24] Secondo la cronologia riconosciuta ufficialmente, non ci sarebbe stato il tempo necessario affinché si potesse verificare l’esilio di quarant’anni che Ezechiele profetizzò per l’Egitto.

[25] R., Furuli, La cronologia persiana e la durata dell’esilio babilonese degli ebrei, Vol. 1, Edizioni Azzurra7, Gardigiano di Scorzè, 2003.

[26] Diciannove anni se contati dal suo anno di ascesa al trono.

[27] M., Bloch, Mestiere di storico, Einaudi editore, Torino, 1998, pp. 47,48.