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Parlare con Dio. Un’indagine fra filosofia e teologia

3 Giugno 2025 0 commenti Articolo Libri

Umberto Curi, nel suo libro dal titolo “Parlare con Dio” (ediz. Bollati Boringhieri, 2024), affronta una profonda indagine sul rapporto tra filosofia e teologia, concentrandosi sulla questione fondamentale di come l’essere umano possa effettivamente “parlare” con il divino. L’autore sviluppa un’analisi critica che mette in discussione le concezioni tradizionali di un Dio conoscibile e definibile, proponendo una comprensione più complessa del rapporto con il divino, caratterizzato da quella tensione insopprimibile fra il desiderio umano di parlare a Dio e l’inesprimibilità del divino stesso. Curi evidenzia come il problema non sia tanto parlare “di” Dio quanto parlare “con” Dio, sottolineando l’importanza dell’incontro personale piuttosto che della definizione teoretica. L’opera si struttura in più capitoli tematici che analizzano episodi fondamentali della Bibbia, indagandoli come momenti emblematici della condizione umana di fronte al mistero del sacro, della sofferenza, della giustizia, dell’alterità e, soprattutto, del silenzio: parlare con Dio è parlare con l’assenza, con l’Altro che non si lascia possedere né comprendere. La teologia, allora, si fa esperienza del limite, aprendosi al paradosso cristiano. In quest’ottica, i riferimenti biblici non sono semplicemente “letti” ma “assunti” come simboli narrativi di una riflessione filosofica profonda. Nel presente lavoro, ci si soffermerà in particolare sui primi tre capitoli del volume, sufficienti a illuminare con chiarezza il concetto centrale proposto da Curi.

Le dieci parole

Nel primo capitolo Curi propone una rilettura radicale dei cosiddetti Dieci Comandamenti, ricollocandoli nel contesto originario della narrazione biblica in cui vengono definiti non tanto come precetti normativi quanto come “dieci parole” (déka lógous, secondo la traduzione greca dei Settanta). Si tratta di una distinzione tutt’altro che formale, che consente di spostare l’asse interpretativo da una prospettiva giuridico-morale a una teologica e linguistica.

Curi invita innanzitutto a considerare il decalogo come il risultato di un incontro, quello tra Dio e Mosè, e non come un elenco normativo disincarnato. Le “dieci parole” non sono proclamate al popolo, ma trasmesse a Mosè, che funge da mediatore esclusivo. Il testo biblico di Esodo 19-20 lo esplicita con chiarezza: mentre il monte Sinai è avvolto da tuoni, lampi e fumo, il popolo percepisce solo i fenomeni naturali, senza udire direttamente la voce divina. È Mosè, unico destinatario del discorso divino, a doverlo riferire poi alla comunità. Tale mediazione è tutt’altro che secondaria: diventa invece strutturale per comprendere la natura stessa della rivelazione. Curi insiste sul fatto che la parola di Dio è, fin dall’origine, parola tradotta. Essa non è mai immediata, ma già coinvolta in un processo di passaggio da un registro all’altro, da una lingua a un’altra, da un’esperienza ineffabile a un’espressione articolata. In questo senso, le “dieci parole” sono già, nel momento in cui vengono pronunciate, segnate da una perdita. Ogni atto di traduzione (tradere-transducere) comporta infatti uno scarto, una discontinuità tra il dire divino e l’udire umano.

Ricostruire lo scenario narrativo in cui esse sorgono non è quindi un’operazione filologica fine a sé stessa, ma un modo per recuperare la loro natura problematica, segnata da gesti, silenzi e distanze che parlano tanto quanto, se non più, le parole stesse. Curi suggerisce così che queste parole siano meno rivelatrici di un contenuto assoluto, e più espressive di un vuoto, di un’assenza strutturale. Esse non “comunicano” in modo esaustivo, ma lasciano emergere una frattura: testimoniano ciò che è andato perduto nel passaggio tra l’infinito e il finito. In questa ottica, il decalogo non è un corpus normativo dotato di autorità in quanto tale, ma il segno tangibile di un dialogo interrotto, incompiuto, asimmetrico. Le dieci parole rivelano molto meno Dio e molto più l’uomo: esse somigliano ai loro destinatari, segnati da limiti, imperfezioni, esitazioni.

Un aspetto fondamentale su cui Curi insiste riguarda dunque il carattere mediato e opaco del linguaggio sacro. La verità che veicolano le “dieci parole” non è un contenuto trasmissibile con fedeltà, bensì un enigma che interpella, un appello che disloca l’ascoltatore, costringendolo a confrontarsi con il proprio limite. Ne consegue, infine, un’esigenza ermeneutica di fondo: se il testo biblico non offre un senso trasparente e univoco, è perché il suo scopo non è informare ma trasformare. La parola di Dio non detta istruzioni, ma invita all’interpretazione continua. Le dieci parole, più che regole, sono soglie di senso, varchi aperti verso un Altro che non si lascia afferrare. In questo senso, l’inaccessibilità non è un ostacolo, ma la cifra stessa del divino.

Il grido di Giobbe

Nel secondo capitolo l’autore si confronta con uno dei testi biblici più inquietanti e filosoficamente densi dell’intero canone veterotestamentario: il libro di Giobbe. Qui il pensiero teologico si libera delle sue impalcature sistematiche e si espone al rischio della domanda radicale. Curi propone di intendere Giobbe come paradigma di una teologia autentica — non una teologia che parla di Dio, ma una che osa parlare a Dio. In questa prospettiva, Giobbe rappresenta il punto di frattura con la teologia tradizionale, con l’ideologia della retribuzione e con le forme classiche di teodicea.

Giobbe, uomo giusto e timorato di Dio, è sottoposto a una prova estrema. Non sono le sue azioni a provocare la catastrofe che si abbatte su di lui, bensì una scommessa tra Dio e il satana (Curi usa sempre l’articolo e la lettera minuscola), figura qui intesa come accusatore e provocatore all’interno del consiglio divino. Il satana insinua che la fede di Giobbe sia soltanto una strategia di convenienza: egli teme Dio perché ne riceve benefici, non per autentica devozione. Così Giobbe viene privato dei suoi beni, dei suoi figli, della salute. Ma, sorprendentemente, non maledice Dio: accetta i mali con la stessa compostezza con cui aveva accolto i beni, ribadendo la celebre affermazione: “se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare anche il male?” (Gb 2:10).

Tuttavia, Curi mostra come la reazione iniziale non esaurisca la profondità del dramma. Dopo un silenzio rituale, Giobbe rompe la compostezza iniziale e dà avvio a una vera e propria requisitoria: maledice la propria esistenza; non bestemmia, ma rivolge la propria protesta contro il giorno della nascita, l’atto stesso del concepimento, e in definitiva contro ogni giorno della propria vita. Questo grido di dolore non è un lamento sterile: è l’inizio di una contesa, di una battaglia spirituale e intellettuale con il divino.

Nel corso del dibattito, tre amici (Elifaz, Bildad e Zofar) si avvicendano nel tentativo di “spiegare” la sofferenza di Giobbe. I loro discorsi sono impregnati della sapienza tradizionale e dell’ortodossia teologica del tempo (di stampo retributiva): chi soffre, sostengono, lo fa perché ha peccato. La sofferenza è dunque meritata, e la giustizia divina rimane salva. Ma Giobbe, incredibilmente, non accetta questa logica: non solo rivendica la propria innocenza, ma respinge con forza la correlazione tra dolore e colpa. In questo rifiuto risiede il nucleo sovversivo del suo pensiero: egli non finge di giustificare Dio, ma neppure nega la sua esistenza. Vuole invece affrontarlo, parlare con lui faccia a faccia, e se necessario, accusarlo. In questo senso, Giobbe non è più un semplice credente: è un teologo, è il primo vero teologo biblico, colui che ha il coraggio di interrogare Dio senza accontentarsi di formule preconfezionate.

Con Giobbe nasce una nuova forma di teologia, una teologia che rinuncia alla ricerca di un fondamento esaustivo per aprirsi al paradosso e allo scandalo. Invece di aderire all’accettazione passiva – “Il Signore ha dato, il Signore ha tolto” – Giobbe si spinge oltre, vuole sapere, vuole capire. Ma, soprattutto, vuole essere ascoltato da Dio. Non accetta una giustizia cieca o impersonale. Il suo grido è un atto di fede, una fede che interroga, sfida e grida.

Dopo il lungo silenzio divino, “Yhwh rispose a Giobbe in mezzo a un turbine” (Giobbe 38:1). Il Signore prende la parola, infrangendo la rigida logica retributiva: il fatto stesso che risponda a Giobbe indica che quest’ultimo non era nel torto. La risposta, tuttavia, non consiste in una giustificazione logica e razionale del dolore, ma in una serie di domande retoriche che disorientano l’uomo: “Dov’eri tu quando io fondavo la terra?”. Il punto non è offrire spiegazioni, ma mostrare l’incommensurabilità dell’ordine cosmico rispetto alla limitatezza umana.

Giobbe, a questo punto, esclama: “Ora i miei occhi ti hanno veduto”. In altre parole, ciò che muta è la sua postura esistenziale: non pretende più di comprendere, ma accetta di non poter comprendere. È questa la vera svolta: la sapienza non nasce dalla conoscenza, ma dal riconoscimento del proprio limite. La teologia autentica non è dominio, ma apertura; non è spiegazione, ma stupore. Giobbe “vede” Dio non perché comprende la risposta, ma perché realizza che esiste una risposta, pur restando a lui inconoscibile. In questo gesto di abbandono, Giobbe trova la pace; non la cessazione della sofferenza del corpo, ma la fine del tormento dello spirito che pretendeva comprendere tutto. In Giobbe cogliamo l’intuizione di ciò che si compirà solo con l’avvento del Cristo: una teologia fondata non sulla logica della retribuzione, ma sull’economia del dono e del sacrificio.

Curi propone dunque una lettura cristologica della figura di Giobbe. Il suo grido anticipa quello di Gesù in punto di morte: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Entrambi aprono a una prospettiva teologica decisiva: il giusto sofferente, che non cerca spiegazioni, ma accoglienza presso Dio. Con Giobbe inizia la possibilità di una fede matura, che non nega la domanda ma non pretende nemmeno la risposta.

L’eroe della fede

Nel terzo capitolo del suo saggio, Umberto Curi affronta uno dei momenti più drammatici della narrazione biblica: il sacrificio di Isacco da parte di Abramo (Genesi 22). L’episodio, noto nella tradizione ebraica come ‘Aqedàh (legatura), viene sottoposto a una lettura filosofico-teologica che ruota attorno all’interpretazione di Søren Kierkegaard. Abramo non è presentato da Curi come un esempio etico o morale, ma come l’eroe della fede in senso radicale, cioè come colui che incarna il paradosso della fede pura, una fede che non si appoggia su alcuna razionalità condivisa, né su alcuna logica giustificativa.

Il punto di partenza è il concetto di fede come “certezza angosciosa”, espressione ossimorica che riassume perfettamente la tensione esistenziale in cui si trova Abramo. Non vi è nulla di razionalmente plausibile, né moralmente giustificabile, nella richiesta di Dio di sacrificare Isacco, il figlio della promessa. La fede di Abramo consiste, proprio per questo, nell’accettare l’assurdo senza alcuna garanzia, senza alcun segno, senza alcuna spiegazione. In questo senso, la fede non è una virtù morale, ma un salto nel vuoto, un affidamento totale al Dio che ordina ciò che contraddice ogni ordine conosciuto.

Attraverso una suggestiva metafora narrativa, Curi suddivide il cammino verso il monte Moriah in due fasi simboliche. La prima parte del tragitto, che si svolge in pianura e dura tre giorni, è un cammino lineare, rettilineo, regolare. Su questo piano, Abramo si muove con sicurezza: conosce la direzione, conosce il linguaggio, conosce il Dio che lo guida. Il cambiamento decisivo avviene al termine della pianura. Per incontrare veramente Dio, per divenire non solo il patriarca di un popolo ma il padre di tutte le nazioni, Abramo deve compiere un’ascesa: l’ascesa al Moriah. È un cambiamento topologico ma soprattutto teologico: non più un cammino orizzontale, ma una salita verticale, aspra, pericolosa, priva di riferimenti. Questa salita rappresenta simbolicamente l’ingresso in un’altra dimensione del credere: non più l’obbedienza normativa al Dio della legge, ma l’affidamento assoluto al Dio che eccede ogni norma. È solo su quel monte, luogo della sospensione dell’etica, che Abramo diventa realmente l’eroe della fede. E non tanto perché obbedisce, quanto perché è disposto a non capire. Perché si espone alla perdita radicale della promessa, del figlio, della propria identità. Questo è il punto in cui si consuma il paradosso: Abramo crede nonostante ciò che gli viene chiesto, o forse proprio perché gli viene chiesto ciò che è umanamente inaccettabile.

L’ascesa al monte è dunque simbolo di un oltrepassamento: oltre la legge, oltre la ragione, oltre il calcolo. Non a caso, Kierkegaard definisce Abramo un cavaliere del paradosso, colui che cammina per vie invisibili, che crede contro ogni speranza, che ama Dio più del dono ricevuto.

Alla luce di questa lettura, il gesto di Abramo non è giustificabile in termini morali  ma proprio per questo diventa rivelatore della natura della fede: essa non è adesione a una verità evidente, ma relazione assoluta con un Assoluto che può chiedere l’impossibile. Ed è solo questa forma di fede, illogica, oscura, radicale, che rende Abramo l’antenato del cristianesimo, l’anticipazione della logica pasquale. Sulla cima del Moriah, nel punto in cui Abramo è disposto a sacrificare Isacco, si prefigura già l’altra cima, quella del Golgota, dove sarà Dio stesso a non risparmiare il proprio Figlio.

In conclusione, il capitolo su Abramo non è una riflessione sull’obbedienza religiosa, ma una meditazione sul confine estremo del credere. Abramo è l’uomo che lascia la strada sicura della teologia della legge per salire verso l’ignoto, per oltrepassare l’alleanza giuridica e incontrare un Dio che chiede tutto, che chiede l’incomprensibile,  l’insensato, ed è in questa richiesta che si cela la verità ultima della fede: essa non ha altra certezza che la propria angoscia, non ha altra garanzia che la voce che chiama, non ha altra prova che il cammino stesso.

Conclusione e prospettive di ricerca

L’epilogo del libro, significativamente intitolato “Silenzio”, rappresenta non soltanto la conclusione tematica del saggio, ma anche il suo esito più profondo e rivelatore. Dopo aver attraversato figure bibliche paradigmatiche e snodi concettuali complessi, Curi conduce il lettore verso una consapevolezza matura: il punto più alto del “parlare con Dio” è il tacere di fronte a Dio. Il silenzio si configura così non come una mancanza, ma come una pienezza differita, uno spazio di attesa in cui si può intuire (più che comprendere) la realtà del sacro.

In questa riflessione, Curi si appoggia a pensatori come Platone, Aristotele, Kierkegaard, Heidegger, Nietzsche e Derrida, componendo un itinerario che fonde filosofia e teologia nella comune tensione verso un “oltre” indicibile. Parlare con Dio significa anche sapere quando cessare di parlare; il silenzio è il luogo in cui la parola trova il proprio limite e, paradossalmente, la propria verità più profonda.

In tale prospettiva, il silenzio non va interpretato come una forma di ignoranza, ma come un atteggiamento epistemologico ed esistenziale: il riconoscimento che ogni sapere umano è parziale, provvisorio, simbolico. Questo non impoverisce la ricerca spirituale, ma la rende più autentica, liberandola dalla presunzione dogmatica e aprendola all’ascolto dell’alterità.

La riflessione di Curi, pur sviluppata in ambito teologico-filosofico, offre spunti significativi anche sul piano della comunicazione umana contemporanea. In un’epoca segnata da eccesso di discorsi, da continue sovrainterpretazioni, da comunicazioni istantanee e spesso superficiali, la riscoperta del valore del silenzio rappresenta un gesto di resistenza e profondità. Il silenzio diventa il simbolo di un’etica dell’ascolto, del rispetto per l’ambiguità del significato e della consapevolezza della distanza strutturale tra intenzione e comprensione.

Questa riflessione comporta almeno due acquisizioni di metodo:

  • ogni messaggio, sacro o profano, è soggetto a mediazione, traduzione e interpretazione;
  • la comunicazione autentica è quella che lascia spazio, margine, vuoto, apertura.

Ne consegue una visione della spiritualità non come conquista di certezze, ma come cammino fatto di domande, di soste, di attese, e anche di silenzi pieni.

Da questa impostazione, emerge una feconda prospettiva per ulteriori ricerche interdisciplinari, tanto sul piano teologico quanto su quello filosofico ed educativo. Si può delineare un ambito di studio che potremmo definire ermeneutica del silenzio, in cui convergano la teologia apofatica, la fenomenologia del linguaggio, l’antropologia della sacralità e la filosofia del limite. Questa ermeneutica si presterebbe a indagare, in modo critico e creativo, il ruolo del non-detto nella trasmissione della fede, nella liturgia, nella preghiera personale, ma anche nella didattica e nella relazione educativa.

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Tags: ermeneutica del silenzio, parlare con Dio, Umberto Curi

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