
La lotta con Dio e la lotta con il Testo: per un’ermeneutica della trasformazione
AI gen podcast (English lang)
Giacobbe rimase solo, e un uomo lottò con lui fino all’apparire dell’alba. E quando quest’uomo vide che non lo poteva vincere, gli toccò la giuntura dell’anca; e la giuntura dell’anca di Giacobbe fu slogata, mentre quello lottava con lui. L’uomo disse: “Lasciami andare, perché spunta l’alba”. E Giacobbe: “Non ti lascerò andare prima che tu mi abbia benedetto!”. E l’altro gli disse: “Qual è il tuo nome?”, egli rispose: “Giacobbe”. E quello disse: “Il tuo nome non sarà più Giacobbe, ma Israele, poiché tu hai lottato con Dio e con gli uomini, e hai vinto”. Giacobbe allora gli disse: “Ti prego, palesami il tuo nome”. E quello rispose: “Perché chiedi il mio nome?”. E lo benedisse lì. E Giacobbe chiamò quel luogo Peniel, “perché”, disse, “ho visto Dio faccia a faccia, e la mia vita è stata risparmiata”. Il sole sorgeva appena egli ebbe passato Peniel; e Giacobbe zoppicava dall’anca. Per questo, fino a oggi, gli Israeliti non mangiano il nervo della coscia che passa per la giuntura dell’anca, perché quell’uomo aveva toccato la giuntura dell’anca di Giacobbe, al punto del nervo della coscia. (Genesi 32:24-32)
Introduzione: l’ermeneutica come corpo a corpo
Nel panorama contemporaneo degli studi biblici, dominato dalla tensione tra l’ipercriticismo decostruzionista e il ritorno a letture fondamentaliste, ripensare l’atto interpretativo come “lotta” offre una terza via epistemologicamente feconda. L’episodio di Giacobbe al guado dello Iàbboc (Gen 32:24-32) si presenta non solo come narrazione teofanica, ma come paradigma meta-ermeneutico che precede e illumina ogni teoria dell’interpretazione. La tesi che qui si sostiene è duplice e paradossale: da un lato, il testo biblico si offre come alterità irriducibile che resiste all’appropriazione; dall’altro, proprio questa resistenza costituisce la condizione di possibilità di un’autentica trasformazione del soggetto interpretante. Contro l’illusione di un’ermeneutica “indolore”, l’episodio di Giacobbe rivela che ogni vera comprensione passa attraverso una ferita costitutiva.
La corporeità dell’interpretazione nell’oscurità della notte ermeneutica
La narrazione genesiaca colloca l’incontro con Dio nella dimensione corporea. Non si tratta di visione estatica né di illuminazione intellettuale, ma di lotta fisica. Questo dato, spesso spiritualizzato dalla tradizione esegetica, merita invece di essere recuperato nella sua scandalosa materialità. L’etimologia stessa è rivelatrice: il termine ebraico יֵּאָבֵק (yē’āvēq – it. “lottare”) stabilisce un gioco paronomastico con יַבֹּק (Iàbboc – nome del fiume dove avviene la lotta) e יַעֲקֹב (Ya’aqov – it. “Giacobbe”), creando una costellazione semantica che lega indissolubilmente identità, territorio e conflitto. La radice ‘bq rimanda alla polvere (אָבָק, ‘āvāq) sollevata dai lottatori, suggerendo una dimensione di contatto primordiale con l’elemento terrestre. Questo intreccio linguistico non è casuale ma costituisce una chiave ermeneutica del testo stesso, assieme all’oscurità: “E Giacobbe rimase solo” (Gen 32:24). L’isolamento notturno non è mero sfondo narrativo, ma condizione epistemologica dell’incontro. La tradizione mistica ebraica ha valorizzato questa dimensione notturna come metafora della docta ignorantia necessaria all’interpretazione.
La ferita ermeneutica: vulnerabilità e trasformazione
Il particolare anatomico della ferita all’anca merita un’attenzione speciale. Il testo specifica che l’avversario divino “toccò l’articolazione dell’anca”, usando un termine (כַּף, kaf) che indica la cavità, suggerendo una vulnerabilità strutturale dell’essere umano. La tradizione rabbinica collega questa ferita al nervo sciatico (גִּיד הַנָּשֶׁה, gid ha-nasheh), stabilendo un nesso tra l’esperienza mistica e la limitazione corporea.
Questa connessione tra ferita e conoscenza sottolinea la vulnerabilità come condizione della rivelazione: l’interpretazione, quella autentica, non lascia intatto l’interprete ma lo marca, lo segna, lo ferisce, lo trasforma; la trasformazione dell’essere, che in contesto semitico, si concretizza nella trasformazione del nome quale riconfigurazione identitaria. “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele” (Gen 32:28). Il cambio di nome sancisce una trasformazione ontologica, non solo epistemologica. L’incontro con il divino riconfigura l’identità stessa dell’interprete. La radice שרה (śarah, “lottare, prevalere”) contenuta nel nome Israele suggerisce che l’identità autentica emerge precisamente attraverso il conflitto ermeneutico, non evitandolo: l’interprete non esce mai indenne dall’incontro con il testo, ma viene da esso rinominato.
Implicazioni per l’ermeneutica contemporanea: oltre oggettivismo e soggettivismo
Le implicazioni di questa rilettura per l’ermeneutica biblica contemporanea sono profonde. Contro l’oggettivismo storico-critico che pretende di accedere al significato “originario” del testo senza coinvolgimento esistenziale, l’episodio di Giacobbe ricorda che ogni interpretazione autentica è anche auto-interpretazione. D’altra parte, contro il soggettivismo post-moderno che dissolve il testo nelle infinite letture possibili, la narrazione biblica afferma la resistenza irriducibile dell’alterità divina. Emerge così una “terza via” ermeneutica che potremmo definire “realismo interpretativo”: il riconoscimento che il significato non è né oggettivamente dato né soggettivamente costruito, ma emerge nell’evento dell’incontro tra testo e interprete, in una dinamica di resistenza e trasformazione reciproca.
Conclusione: per un’ermeneutica della trasformazione
L’episodio di Giacobbe al guado dello Iàbboc ci invita a ripensare radicalmente l’atto interpretativo. Non si tratta più di “estrarre” un significato dal testo, ma di entrare in una relazione trasformativa con esso. Questa relazione implica solitudine, oscurità, lotta, ferita e rinominazione – elementi che costituiscono non accidenti ma condizioni strutturali di ogni autentica comprensione. In un’epoca segnata dalla polarizzazione tra fondamentalismi testuali e relativismi interpretativi, questa “ermeneutica della trasformazione” offre una via alternativa che onora sia l’alterità irriducibile del testo sia il coinvolgimento esistenziale dell’interprete. Come Giacobbe, siamo chiamati non a possedere il significato, ma a lottare con esso fino all’alba, accettando la benedizione che viene attraverso la ferita.
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