
La dimensione plurale delle attese escatologiche nel Nuovo Testamento
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Introduzione
Con il termine “escatologia” (da éskhatos «ultimo» e loghìa «discorso») si indica quella “dottrina delle ultime cose [che] si occupa della consumazione dell’intera storia del mondo, verso la quale sono diretti tutti gli atti redentori di Dio compiuti in tale storia”[1]. Attraverso la prospettiva escatologica, i credenti trovano conforto e speranza, riconoscendo in essa un orientamento verso una realtà futura di giustizia e pace. Nel Nuovo Testamento, l’attesa escatologica si esprime in molteplici forme: dalla venuta del Regno di Dio, alla resurrezione dei morti, fino al giudizio finale. Questi insegnamenti non solo delineano il destino ultimo, ma hanno influenzato e influenzano profondamente la vita quotidiana dei credenti, esortandoli a mantenere una fede attiva e vigile, e a vivere, nel contesto del ‘già e non ancora’, secondo i princìpi del Regno di Cristo[2].
Qui di seguito si analizzeranno alcuni versetti paradigmatici, con particolare attenzione alla percezione temporale dell’attesa escatologica ivi espressa, che appare significativamente diversa a seconda dei contesti e degli autori. Alcuni passaggi neotestamentari sembrano delineare un imminente compimento delle promesse escatologiche, mentre altri paiono suggerire un allungamento temporale, creando una tensione tra la realizzazione immediata e quella futura del Regno di Dio; questo contrasto tra le visioni è di fondamentale importanza per comprendere la pluralità di voci che si esprimono nelle Scritture. Infine si esplorerà come questi concetti, seppur radicati nel contesto storico e teologico del Nuovo Testamento, possano essere riletti e applicati nella vita cristiana contemporanea, suggerendo un modo fecondo di comprendere l’attesa escatologica nel quotidiano dei credenti di oggi.
Excursus sulla diacronia semantica del termine ἔσχατον
In greco classico, il termine ἔσχατον (nelle sue varie forme sostantivali) possedeva una connotazione prevalentemente spaziale, significando “lontano” o “ultimo” (in questo caso anche nel senso di “ultimo” in una successione di eventi). In un contesto geografico poteva riferirsi a qualcosa situato all’estremità di una data area; nella sua forma plurale (τὰ ἔσχατα) indicava sempre i confini estremi di un territorio, la zona di passaggio fra un territorio e un altro.
A conferma di ciò, possiamo citare alcuni testi significativi, tra cui quello di Omero (VIII sec. a.E.V.[3]) che, parlando dell’antica città di Mirsino, la definisce “lontana”, ubicata all’estremità dell’Elide (Μύρσινος ἐσχατόωσα)[4]. In modo simile Erodoto (circa 484-425 a.E.V.), nel descrivere la marcia di Cambise contro gli Etiopi, afferma che “stava per marciare verso i confini della terra” (τὰ ἔσχατα γῆς ἔμελλε στρατεύεσθαι)[5] . Persino Polibio[6] (circa 206-124 a.E.V.), in un’epoca successiva, attesta ancora l’accezione geografica del termine parlando dei “confini estremi dell’Arcadia” (ἐσχατεύουσα τῆς Ἀρκαδίας)[7]. A partire dall’epoca ellenistica si può rilevare un’estensione, se non uno slittamento vero e proprio, dello spettro semantico di questo sostantivo dalla dimensione prevalentemente geografica a quella prevalentemente temporale[8].
Nella LXX, ben 25 delle 27 ricorrenze[9] delle forme flesse sostantivali[10] possiedono una dimensione semantica temporale, compresa la forma plurale τὰ ἔσχατα[11] (a esclusione di Salmo 139:9 e Isaia 37:24, che mantengono la dimensione spaziale). Una situazione simile è riscontrabile nei libri del Nuovo Testamento, dove ognuna delle 4 ricorrenze[12] di τὰ ἔσχατα ha una dimensione semantica temporale. Delle 47[13] forme flesse presenti, solo 2 hanno una dimensione spaziale o geografica: Atti 1:8 e 13:47 (ἕως ἐσχάτου τῆς γῆς). È però qui evidente come il concetto di “confine geografico” venga utilizzato a metafora del “confine temporale”: le due dimensioni si sovrappongono; la predicazione del messaggio evangelico riflette il movimento temporale che culminerà con la fine del tempo e il ritorno di Cristo.
In conclusione, si può sostenere che l’evoluzione semantica del termine segua una traiettoria che, da una connotazione prevalentemente spaziale, si orienta progressivamente verso una dimensione temporale, fino a stabilizzarsi, almeno a partire dal III-IV secolo E.V.[14], in una prospettiva extratemporale. Questo processo riflette e accompagna lo sviluppo del pensiero escatologico cristiano: l’interdipendenza tra la trasformazione semantica e l’evoluzione delle concezioni escatologiche si configura come un processo dialettico, in cui lingua e teologia si influenzano reciprocamente in modo strutturale.
Le differenti percezioni dell’attesa escatologica
Un elemento centrale della riflessione escatologica neotestamentaria è il modo in cui i diversi autori hanno espresso l’attesa degli eventi ultimi. Attraverso l’analisi di alcuni passi significativi, che coprono un arco temporale di circa cinquant’anni, sarà possibile indagare se e in che misura l’escatologia cristiana sia stata espressa in una dimensione plurale nei vari contesti dell’epoca. I versetti presi in esame sono i seguenti, e le datazioni indicate sono quelle comunemente accettate dalla critica testuale[15], da considerarsi mediate e approssimate:
- 1 Tessalonicesi 4:16-18;
- Marco 13:29,30;
- 1 Pietro 1:4,5,20;
- Atti 1:6-8;
- Giovanni 11:24-26;
- Apocalisse 6:10;
- 2 Pietro 3:3-4.
1 Tessalonicesi 4:16-18
La prima lettera ai Tessalonicesi è databile con certezza tra il 50 e il 51[16].
Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi [ἡμεῖς], che viviamo [ζῶντες] e che saremo ancora in vita [περιλειπόμενοι], verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così per sempre saremo con il Signore. Confortatevi dunque a vicenda con queste parole (1 Ts 4:16-18)[17].
Molti si sono interrogati sull’uso del pronome “noi” nel verso 17. Chi sono questi “noi”? I due participi che seguono sono espressi al tempo presente e sono entrambi rafforzati dall’uso dell’articolo, il che conferisce loro un valore determinativo. Tale costruzione sintattica suggerisce un’azione che si svolge nel tempo presente rispetto all’autore e ai suoi destinatari, sottolineando così un’aspettativa a breve termine dell’evento descritto. Da una lettura di primo livello, cioè priva di interpretazioni sincroniche o di sovrastrutture esegetiche[18], si deduce che Paolo attendesse la parusia prima della sua morte. Una simile deduzione sembra trovare riscontro nella prima lettera ai Corinti, scritta solo quattro anni più tardi:
Poi sarà la fine [τέλος], quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo avere ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza […] Ecco, io vi annuncio un mistero: noi tutti non moriremo [πάντες οὐ κοιμηθησόμεθα], ma tutti saremo trasformati… (1 Co 15:24, 51)
Marco 13:29, 30
Anche nel Vangelo di Marco è possibile riscontrare l’idea di un’imminenza della fine. I versetti che seguono si collocano all’interno della pericope nota come “discorso escatologico”:
Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte. In verità io vi dico: non passerà questa generazione [γενεὰ] prima che tutto questo avvenga (Mc 13:29,30).
Sebbene la data del ritorno del Figlio dell’uomo rimanga imprevedibile, le parole riportate nel testo non possono che veicolare la convinzione di un compimento prossimo delle profezie messianiche all’interno della generazione che le ascoltava. La forte connotazione escatologica di questi versetti si inserisce coerentemente nel più ampio quadro narrativo marciano e trova ulteriore conferma in quanto affermato nel capitolo 9: “In verità io vi dico: vi sono alcuni, qui presenti, che non morranno prima di aver visto giungere il regno di Dio nella sua potenza” (Mc 9:1).
1 Pietro 1:4-5, 20
La Prima Lettera di Pietro, generalmente considerata autenticamente petrina, si inserisce in continuità con la precedente linea di pensiero.
…dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, in vista della salvezza che sta per essere rivelata nell’ultimo tempo [ἐν καιρῷ ἐσχάτῳ] (1 Pt 1:4, 5).
A cosa si riferisce Pietro quando parla di “ultimo tempo”? È lo stesso autore a chiarirne il significato pochi versetti dopo:
Egli fu predestinato già prima della fondazione del mondo, ma negli ultimi tempi [ἐσχάτου] si è manifestato per voi (1 Pt 1:20).
L’esegesi concorda nell’affermare che, secondo la prospettiva petrina, “la fine ha preso avvio con l’apparizione di Gesù”[19]. Il riferimento agli “ultimi tempi” suggerisce che, per Pietro, la venuta di Cristo abbia segnato l’inizio dell’era escatologica, il cui compimento definitivo restava imminente.
Atti 1:6-8
Negli Atti degli Apostoli la percezione temporale dell’attesa escatologica appare significativamente diversa rispetto ai precedenti libri:
Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: “Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?”. Ma egli rispose: “Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra” (Atti 1:6-8).
Se è vero che queste parole sono da collocarsi al termine dei quaranta giorni in cui Gesù Cristo rimase con i suoi discepoli dopo la risurrezione, è altrettanto significativo che Luca, redigendo il suo scritto attorno all’85 E.V., le includa nel proprio racconto. Ciò suggerisce che esse rispondessero a un bisogno diffuso di spiegazione riguardo alla mancata parusia, un interrogativo reso ancora più pressante dalla distruzione del Tempio nel 70 E.V., evento che molti potevano aver interpretato come segno imminente della fine.
Luca richiama le parole di Gesù non solo per ammonire i discepoli riguardo all’incertezza dei tempi escatologici, ma anche per ridefinire la loro attesa: la priorità non deve essere la speculazione sulla fine, bensì l’adempimento della missione, ovvero la diffusione del vangelo fino ai confini della terra [ἐσχάτου τῆς γῆς].
Giovanni 11:24-26; Apocalisse 6:10
Il Vangelo secondo Giovanni e l’Apocalisse, entrambi tradizionalmente attribuiti all’apostolo Giovanni[20], sono testi composti verosimilmente attorno alla fine del I secolo E.V., con una possibile distanza cronologica di pochi anni tra loro, probabilmente meno di cinque. In entrambe le opere, l’orizzonte escatologico si configura come un elemento che trascende la contingenza storica, proiettando la realizzazione delle promesse divine in un futuro escatologico ancora atteso.
Marta disse a Gesù: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà”. Gesù le disse: “Tuo fratello risorgerà”. Gli rispose Marta: “So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno [τῇ ἐσχάτῃ ἡμέρᾳ]”. Gesù le disse: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?” (Gv 11:21-26).
L’affermazione di Marta, “[s]o che risorgerà nell’ultimo giorno”, riflette la consapevolezza di un’attesa intrisa di sofferenza, con una forte tensione tra il tempo della promessa e la sua attuazione. Questo stesso senso di attesa pervade anche la visione apocalittica del quinto sigillo:
Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano reso. E gridarono a gran voce: “Fino a quando [Εως πότε], Sovrano, tu che sei santo e veritiero, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue contro gli abitanti della terra?” (Ap 6:9-10).
L’invocazione “[f]ino a quando…” esprime l’urgenza della giustizia escatologica, ma al contempo sancisce l’accettazione di un intervallo di attesa che separa il già dal non ancora. Entrambi i passi riflettono la consapevolezza, ormai maturata alla fine del I secolo E.V., che la realizzazione delle promesse divine non sarebbe stata immediata. L’attesa dell’eschaton non era più percepita come un evento imminente, ma come una realtà differita, che richiedeva perseveranza e resistenza nella fede.
2 Pietro 3:3-4; 8-9
L’ultimo testo in esame, tratto dalla Seconda Lettera di Pietro, introduce un elemento di riflessione peculiare rispetto ai precedenti: la necessità di fornire una giustificazione per un’attesa escatologica che, col passare del tempo, era divenuta problematica, suscitando dubbi e scetticismo all’interno e all’esterno della comunità credente.
Questo anzitutto dovete sapere: negli ultimi [ἐσχάτων] giorni si farà avanti gente che si inganna e inganna gli altri e che si lascia dominare dalle proprie passioni. Diranno: “Dov’è la sua venuta, che egli ha promesso? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi, tutto rimane come al principio della creazione” (2 Pt 3:3-4).
Una cosa però non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno. Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza [τινες βραδυτῆτα ἡγοῦνται]. Egli invece è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi (2 Pt 3:8-9).
In risposta a tale problematica, l’autore adotta una prospettiva teologica volta a relativizzare la percezione umana del tempo rispetto alla dimensione divina. L’affermazione secondo cui “un giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno” richiama la necessità di non misurare il compimento della promessa con parametri umani, ma di considerare l’apparente ritardo della parusia come espressione della magnanimità divina. Come già evidenziato negli Atti degli Apostoli, l’intervallo temporale non deve essere percepito come un ritardo, bensì come un’opportunità: un tempo di grazia in cui il maggior numero possibile di persone possa giungere al pentimento.
Conclusione
Dall’analisi svolta emerge con chiarezza che l’attesa escatologica nel Nuovo Testamento non è monolitica, ma presenta una dimensione plurale. Alcuni scritti, come la Prima lettera ai Tessalonicesi e il Vangelo di Marco, sembrano esprimere un’aspettativa imminente della parusia, mentre altri, come il Vangelo di Giovanni e la Seconda lettera di Pietro, indicano un allungamento temporale o una ridefinizione dell’attesa. Questa varietà non è una contraddizione, ma una caratteristica intrinseca del pensiero neotestamentario, che riflette la complessità dell’esperienza cristiana nel primo secolo.
La Prima Lettera di Pietro, e alcuni scritti successivi, dimostrano come la Chiesa primitiva abbia iniziato a comprendere l’escatologia in termini di un processo che si sviluppa nel tempo, mantenendo in equilibrio la tensione tra il “già” e il “non ancora”. La riflessione della Seconda lettera di Pietro assume particolare rilievo: lo scorrere del tempo non invalida la promessa divina, ma ne conferma la certezza.
Altri scritti neotestamentari, come la Prima lettera di Giovanni[21], tornano a esprimere un senso di imminenza escatologica; tuttavia, ciò conferma ulteriormente che la prospettiva sull’attesa della fine è sfaccettata e contestualizzata, piuttosto che univoca. L’idea che la parusia possa essere vicina o lontana coesiste armoniosamente nella tradizione neotestamentaria, lasciando spazio a una fede dinamica e capace di adattarsi alle generazioni successive.
Questa pluralità di visioni escatologiche offre una lezione importante anche per i credenti di oggi. La storia del cristianesimo è costellata da tentativi di individuare date specifiche per il ritorno di Cristo o di attribuire significati escatologici a eventi contemporanei. Tuttavia, il Nuovo Testamento stesso ci insegna che non è saggio focalizzare la propria attesa escatologica su periodi o segni particolari. L’equilibrio tra il “già” e il “non ancora” invita i credenti a vivere con consapevolezza il presente, impegnandosi attivamente nella diffusione del messaggio cristiano, senza perdere la speranza nella promessa futura.
In definitiva, la dimensione plurale delle attese escatologiche testimonia la ricchezza della riflessione neotestamentaria e suggerisce che l’attesa non è un’esperienza statica, ma dinamica. Il credente è chiamato a custodire la speranza escatologica senza cedere alla tentazione di fissare scadenze, ma coltivando una fede attiva e vigile, consapevole che la storia della salvezza è un processo in divenire, guidato dalla volontà divina.
Il Nuovo Testamento offre quindi un modello di attesa responsabile: indipendentemente dal momento esatto del ritorno di Cristo, ciò che conta è rimanere fedeli alla missione.

[1] R. Diprose (a cura di), Dizionario Biblico GBU, Edizioni GBU, Roma, 2008, ad vocem.
[2] Alcuni passi del Nuovo Testamento possono essere definiti ‘escatologici’ anche se riferiti a eventi circoscritti al loro contesto storico (ad esempio, il cantico di Maria in Lc 1,46-55), poiché esprimono verità salvifiche a carattere ultimativo.
[3] La periodizzazione storica è espressa non con a.C. e d.C. ma con a.E.V ed E.V., cioè in riferimento all’era volgare.
[4] Iliade, II, 615. Tutti i testi classici in lingua greca, citati da qui in avanti, sono presi dalla Perseus Digital Library (www.perseus.tufts.edu) e le traduzioni in lingua moderna sono a mia cura.
[5] Storie, III,25.
[6] Gli autori e le opere che attestano tale accezione del termine sono molto numerosi.
[7] Storie, IV, 77, 8
[8] La dimensione temporale della forma aggettivale è comunque attestata anche nei tempi classici. Cfr. Erodoto, Storie, VII, 107.
[9] Tutte le analisi statistiche sulle singole parole prese in esame sono condotte attraverso il software BibleWorks® v.10. Le 27 ricorrenze sono: Gen 49:1; De 4:30, 8:16, 24:3; 1 Sam 29:2; 2 Sam 2:26; Gb 8:13; 11:7; 42:12; Sl 72:17; 138(139):5, 9; Pr 5:11, 19:20, 25:8; Is 37:24; 41:22; 46:10; 47:7; Ger 17:11; La 1:9; Ez 38:10; Da 2:28, 29, 45; Os 3:5; Mic 4:1. Non sono state prese in considerazione le ricorrenze nei libri che successivamente i cristiani avrebbero etichettato come deuterocanonici.
[10] Le ricorrenze sostantivali sommate a quelle aggettivali, nelle varie forme flesse, sono pari a 108.
[11] Cfr. Isaia 41:22 “ἐγγισάτωσαν καὶ ἀναγγειλάτωσαν ὑμῖν ἃ συμβήσεται ἢ τὰ πρότερα τίνα ἦν εἴπατε καὶ ἐπιστήσομεν τὸν νοῦν καὶ γνωσόμεθα τί τὰ ἔσχατα καὶ τὰ ἐπερχόμενα εἴπατε ἡμῖν (LXX).
[12] Mt 12:45; Lc 11:26: 2 Pt 2:20; Ap 2:19.
[13] Mt 5:26; 12:45; 19:30; 20:8, 12, 14, 16; 27:64; Mc 9:35; 10:31; 12:6, 22; Lc 11:26; 12:59; 13:30; 14:9-10; Gv 6:39-40, 44, 54; 7:37; 11:24; 12:48; At 1:8; 2:17; 13:47; 1 Co 4:9; 15:8, 26, 45, 52; 2 Tm 3:1; Eb 1:2; Gc 5:3; 1 Pt 1:5, 20; 2 Pt 2:20; 3:3; 1 Gv. 2:18; Gd 1:18; Ap 1:17; 2:8, 19; 15:1; 21:9; 22:13.
[14] L’ultimo Padre della Chiesa latina di cui si abbia attestazione di una professione escatologica millenaristica intrastorica e letterale sembra essere stato Vittorino di Petovio (m. 304). Cfr. NDPAC, ad vocem.
[15] La datazione conservatrice, che rispetto ai testi esaminati diverge in modo significativo solo per gli Atti degli Apostoli (circa 20 anni) e per la seconda Lettera di Pietro (circa 35 anni), è sostenuta da studiosi di rilievo quali Frederick Fyvie Bruce, John Arthur Thomas Robinson, Jean Carmignac, José O’ Callaghan, Carsten Peter Thiede, tra altri. Pur riconoscendo una notevole dignità esegetica all’approccio conservatore, il presente studio si incentra esclusivamente sulla datazione maggiormente accreditata nella critica contemporanea.
[16] L’ epigrafe di Delfi attesta in maniera inequivocabile che il primo scritto paolino risale a circa 20 anni dopo la morte di Gesù Cristo. Cfr. P. Iovino, La prima lettera ai Tessalonicesi, EDB, Bologna, 1992, p.37.
[17] I testi, da qui in avanti, sono quelli presi dalla traduzione CEI 2008.
[18] Formulate a partire da Giovanni Crisostomo, Agostino, Tommaso, fino ad arrivare a molti esegeti moderni, che definiscono quel “noi” come un plurale di categoria scollegato dall’immediato contesto storico.
[19] GLNT, 997.
[20] La reale paternità degli scritti neotestamentari non è oggetto di questo studio; qui mi limito a una identificazione tradizionale come ci è giunta dalla Patristica.
[21] “Figlioli, è giunta l’ultima [ἐσχάτη] ora. Come avete sentito dire che l’anticristo deve venire, di fatto molti anticristi sono già venuti. Da questo conosciamo che è l’ultima [ἐσχάτη] ora” (1 Gv 2:18).
…dove la fede pensa!
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