Oscar Cullmann: Immortalità dell’anima o risurrezione dei morti? (a.a. 1954/55)
Il prossimo anno accademico 2024/25 ricorre il 70° anniversario di una celebre lezione tenuta da Oscar Cullmann[i] presso la Harvard University (a.a. 1954/55). A seguito di quella lezione venne dato alle stampe il famoso libretto intitolato “Immortalità dell’anima o risurrezione dei morti?” dove il nostro autore esplora la distinzione tra queste due concezioni principali di vita dopo la morte. La tesi centrale di Cullmann è che il Nuovo Testamento non sostenga la concezione greca di un’anima immortale separata dal corpo, quanto piuttosto la risurrezione dei morti come unica speranza cristiana per la vita eterna. Egli contesta l’idea che i primi cristiani credessero nell’immortalità dell’anima e sostiene che la risurrezione dei morti era la speranza che reggeva, alimentava e formava il loro pensiero escatologico.
L’opera, nella sua edizione italiana[ii], è divisa in quattro capitoli, il primo dei quali analizza come la filosofia greca, in particolare il platonismo, influenzò la comprensione cristiana della vita dopo la morte. Cullmann enfatizza i passi della prima lettera ai Corinti, dove Paolo parla della risurrezione dei morti come evento centrale della fede cristiana; la sua convinzione è che si sia “sacrificato al Fedone il capitolo 15” di questa epistola. Nel presente articolo riprenderò il pensiero esposto da Cullmann integrandolo con ulteriori dati e riflessioni.
Le critiche ricevute
Le parole, espresse senza mezzi termini, che Cullmann scrive per introdurre il suo ragionamento, sono:
[d]omandate a un cristiano, protestante o cattolico, intellettuale o no, che cosa insegni il Nuovo Testamento sulla sorte individuale dell’uomo dopo la morte, e, salvo pochissime eccezioni, avrete sempre la stessa risposta: l’immortalità dell’anima. Eppure questa opinione, per diffusa che sia, è uno dei più gravi fraintendimenti che riguardano il cristianesimo[iii].
Secondo Cullmann, la maggioranza di tutti i cristiani nel mondo avrebbe “frainteso” quello che è il nucleo della speranza escatologica neotestamentaria: un dato decisamente allarmante.
Una simile affermazione giustifica le numerose critiche che l’autore ha ricevuto sin dalla primissima edizione di questo scritto[iv] e che lui etichetta come critiche più “sentimentali” che esegetiche[v]. Critiche che, sempre secondo Cullmann, servono solo ad alimentare la convinzione degli avversari del cristianesimo, per i quali la fede dei cristiani rappresenta nient’altro che la proiezione di un desiderio.
Le principali critiche alla tesi esposta nel suo libro sono giunte dal mondo protestante.[vi] Questo è verosimile e comprensibile poiché se per il mondo cattolico l’insegnamento ufficiale avviene sia attraverso la Sacra Scrittura sia attraverso la sacra Tradizione, in virtù delle quali il Magistero della Chiesa “si avvale in pienezza dell’autorità che gli viene da Cristo quando […] in una forma che obbliga il popolo cristiano ad un’irrevocabile adesione di fede, propone verità contenute nella rivelazione divina”[vii], quali ad esempio (secondo il cattolicesimo) il dogma dell’immortalità dell’anima[viii], per il mondo protestante vale esclusivamente il principio della Sola scriptura: se si fraintende la Scrittura, si fraintende la fede, e non c’è “tradizione” che salvi.
Il risentimento di un cristiano protestante convinto dell’immortalità dell’anima, si mostra tanto più forte quanto più Cullmann mostra di basarsi su argomentazioni strettamente bibliche.
La morte di Socrate e la morte di Gesù
Quindi l’anima dovunque giunge è portatrice di vita con la partecipazione della sua essenza? – Giunge come portatrice di vita, disse – C’è qualcosa contraria alla vita o no? – c’è, disse – E cos’è? – La morte – Ma non è vero che l’anima non potrà mai accogliere il contrario di ciò che abbiamo precedentemente riconosciuto valido? – Nel modo più assoluto, disse Cebete – Ebbene, come abbiamo chiamato poco fa ciò che esclude la natura del pari? – Impari – E ciò che esclude la giustizia o la cultura? – Incolto ed ingiusto, disse – Bene, ciò che esclude la morte come lo chiamiamo? – Immortale, disse.[ix]
Il passo di cui sopra è tratto dal Fedone, uno dei dialoghi più celebri di Platone che ha come principale argomento l’immortalità dell’anima. È un dialogo che vede Fedone, invitato da Echecrate e altri giovani, raccontare la discussione che Socrate ebbe con i suoi discepoli durante gli ultimi momenti di vita. La discussione verte sul fatto che l’anima continuerà a esistere, immortale, dopo la separazione dal corpo: la morte è un’amica che libera l’anima dalla prigione del corpo.
La fede nell’immortalità dell’anima “non conosce in Platone esitazioni […] si tratta di una convinzione sicura e si riferisce all’anima intera”.[x] Uno tra i vari argomenti esposti a sostegno di questa convinzione, è l’argomento dei contrari: l’anima, che per essenza è vita, non può accogliere la morte, cioè il suo contrario. Da ciò ne deriva che essa è immortale.
Quanto il pensiero greco e quello cristiano siano abissalmente separati, è spiegato da Cullmann contrapponendo la morte di Socrate alla morte di Gesù Cristo. Mentre da una parte abbiamo Platone che ci narra di come Socrate affronti la morte con serenità, di come consideri la morte “grande amica dell’anima”, dall’altra parte abbiamo Gesù che i vangeli ci descrivono come un uomo angosciato e tremante davanti al pensiero di dover morire. L’evangelista Luca riferisce che Gesù, parlando della sua passione e morte che da lì a poco avrebbe affrontato, dice ai suoi discepoli: “ho un battesimo da ricevere e grande è la mia angoscia finché non l’avrò ricevuto” (Lc 12:50)[xi]. Un’angoscia tale da pregare il Padre affinché, se possibile, non sia costretto a bere da quell’amaro calice (Mc 14:36). Un Gesù che “implorò e supplicò con grida veementi e lacrime colui che poteva salvarlo dalla morte” (Eb 5:7). Un Gesù consapevole di come la morte sia “la grande nemica di Dio”.[xii] Un Gesù che rappresenta ciò che più distante si possa pensare dalla convinzione di Socrate secondo il quale i “veri filosofi si preparano a morire e meno degli altri uomini temono la morte”[xiii]; una radicale differenza tra la fede cristiana nella risurrezione e la dottrina greca dell’immortalità dell’anima.
“Là ove la morte viene concepita come la nemica di Dio, non può esserci «immortalità »…”[xiv], afferma Cullmann.
All’interno delle narrazioni neotestamentarie, scrive anche Gianfranco Ravasi, siamo “ben lontani dalla psyché, l’anima metafisicamente immortale concepita da quella filosofia greca che pure costituirà l’altra sorgente a cui ha attinto la storia occidentale dell’anima”.[xv] Ci si interroga su come sia stato possibile arrivare ad abbandonare le idee di Paolo e degli evangelisti per accettare quelle di Socrate. Per rispondere, bisogna tenere presente un fattore determinante: “la cultura greca intrideva il terreno su cui il cristianesimo attecchiva e cresceva”.[xvi] Se quindi, da un lato, l’annuncio cristiano subiva un indotto quanto inevitabile processo di contaminazione, dall’altro avrebbe assunto, con sempre meno resistenza, “le categorie di pensiero del mondo ellenistico, garantendosi la possibilità di penetrazione e diffusione nell’area greco-romana, ma a prezzo dello snaturamento del kerygma originario”[xvii].
Fu così che, gradualmente, con il passare del tempo, “il pensiero cristiano [venne] profondamente influenzato da questa visione dualista e non-biblica della natura umana”[xviii], come insegnata in massima parte dagli scritti di Platone, Aristotele e altri filosofi stoici. E che sia stato un processo graduale lo dimostra il fatto che, ancora entro la prima metà del II secolo, alcuni rigettavano fermamente la concezione dualista anima-corpo. Ne è testimone Giustino[xix] nel suo Dialogo con Trifone, quando afferma: “[s]e dunque incontrate dei cristiani che tali sono chiamati ma non riconoscono che c’è resurrezione dei morti, ma che al momento della morte le loro anime vengono assunte in cielo, non dovete considerarli cristiani […]”[xx].
Corpo e anima, carne e spirito
Le successive argomentazioni di Cullmann riprendono e sottolineano come “la concezione giudaica e cristiana della creazione esclud[a] il dualismo greco fra corpo e anima”[xxi]. Troppo spesso, a mio parere, viene ancora oggi sottovalutata la matrice ebraica che caratterizzava il cristianesimo delle origini. Così James Barr descrive l’antropologia dell’Antico Testamento:
Secondo il pensiero ebraico, l’ “anima” non è altro che la persona umana in quanto vivente nella sua carne. “Anima” e “carne” non sono fra di loro inseparabili, ma l’una è la manifestazione esterna e visibile dell’altra. Non c’è pertanto nel mondo ebraico alcuna idea dell’anima che possa vivere indipendentemente dal corpo.[xxii]
Se è vero, come è vero, che gli autori delle Sacre Scritture greche si servono degli stessi termini dei filosofi greci, è altrettanto vero che a essi assegnano significati che non si discostano da quelli dell’Antico Testamento: l’antropologia veterotestamentaria si “riversa”, senza soluzione di continuità, in quella del Nuovo Testamento. Anche negli scritti della LXX, l’anima mantiene il significato ebraico: “essa è insieme forza vitale e vita, è l’uomo stesso, capace di sensazioni e sentimenti”.[xxiii]
Una traduzione che renda l’ebraico nefesh e il greco psyché con la parola “anima” e che sia priva di commenti o note esplicative, presenta l’elevato rischio di veicolare concetti che nulla hanno a che vedere con gli originali insegnamenti biblici. La traduzione più corretta sarebbe “vita” o “essere vivente”.
È vero che il Nuovo Testamento fa distinzione fra corpo e anima, ma questa, spiega Cullmann, è da intendersi come distinzione fra “uomo interiore e uomo esteriore […] l’uomo interiore senza l’uomo esteriore non ha vera esistenza indipendente. Egli ha bisogno del corpo”[xxiv]. Si legge anche la contrapposizione fra “spirito” e “carne”, ma solo nel senso che lo “Spirito è il potere creatore di Dio, la grande potenza della vita, l’elemento di risurrezione, come la carne è la potenza della morte […] la liberazione non è liberazione dell’anima dal corpo: entrambi, l’anima e il corpo, vengono liberati dalla potenza della morte che è la Carne”.[xxv]
Cullmann non ignora certamente che qualche versetto biblico possa dare l’impressione di sostenere la visione dualista greca. Menziona questi pochi versetti “incriminati” nelle note del suo libro[xxvi], ma al contempo evidenzia come questi non abbiano la forza di scardinare il suo ragionamento poiché, a un’attenta lettura, dicono tutt’altro. Per esempio, nel vangelo di Matteo, cap. 10 verso 28, si legge: “non vi spaventate inoltre per quelli che possono uccidere il corpo, ma non possono uccidere l’anima”. Ma a negare che qui “anima” sia da intendersi secondo la concezione greca è la seconda parte del medesimo versetto, dove si legge: “temete piuttosto Colui che ha il potere di far perire nella Geenna e l’anima e il corpo”.
Secondo san Paolo, chiosa Cullmann, “sarà il nostro corpo a risuscitare alla fine, quando la potenza della vita, lo Spirito Santo, creerà di nuovo ogni cosa senza eccezioni”[xxvii].
Il sonno e lo stato intermedio
Se, come ci descrive incontestabilmente il Nuovo Testamento, tra la morte e la risurrezione trascorre del tempo (il tempo che separa la morte di Cristo dall’eschaton), cosa accade a coloro che nel mentre sono morti? Altrettanto incontestabilmente il Nuovo Testamento risponde: “dormono”; sono morti ma non sono stati vinti dalla morte. Coloro che muoiono nella fede, scrive Cullmann, si trovano vicini a Dio e a Cristo, in attesa della fine dei tempi[xxviii].
Sono morti ma, in Cristo, sono anche vivi, poiché “Dio non è Dio dei morti, ma dei viventi perché tutti vivono per lui” (Lc 20:38). Lo stato dei morti resta uno stato “di sonno, d’attesa della risurrezione di tutta la creazione, della risurrezione del corpo”[xxix].
Bacchiocchi riassume nel seguente modo: “sia l’Antico sia il Nuovo Testamento unanimemente insegn[a]no che la morte rappresenta la cessazione dell’intera persona. Lo stato dei morti è, quindi, uno stato di inconsapevolezza, di inattività e di sonno che continuerà fino al giorno della risurrezione”[xxx].
Cullmann ritiene necessario spendere alcune parole su un noto, quanto discusso, passo evangelico che pare negare questo stato/tempo intermedio, azzerando l’attesa della parusia. Si tratta del seguente:
uno dei malfattori, che erano stati crocifissi, lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». Ma l’altro lo rimproverava: «Non hai proprio nessun timore di Dio, tu che stai subendo la stessa condanna? Noi giustamente, perché riceviamo la giusta pena per le nostre azioni, lui invece non ha fatto nulla di male». Poi aggiunse: «Gesù, ricordati di me, quando verrai nel tuo regno». Gesù gli rispose: «In verità ti dico: oggi, sarai con me in Paradiso». (Lc 23:39-43) [xxxi]
Il testo sembra dire che il ladrone non avrebbe atteso fino alla fine dei tempi, ma che sarebbe stato risorto “oggi”, subito dopo sopraggiunta la morte. Cullmann sposa la spiegazione di Menoud, il quale “osserva a ragione che bisogna intendere la risposta di Gesù in rapporto con la domanda del ladrone. Questi domanda a Gesù di ricordarsi di lui quando […] verrà a stabilire il suo regno” ma Gesù risponde che non sarà necessario attendere poiché “già prima egli sarà riunito «con lui»”[xxxii]; in che senso? Menoud spiega che “per i giudei questo termine [Paradiso] è una espressione che indica la salvezza, oppure designa il luogo in cui i giusti attendono la resurrezione finale”[xxxiii]. Un luogo che, nello stesso Vangelo, è anche chiamato “il seno di Abramo”[xxxiv].
Anche Nicholas Thomas Wright, nella sua monumentale opera dal titolo “The Resurrection of The Son of God”[xxxv], sottolinea come “il «Paradiso» può benissimo indicare un luogo di riposo temporaneo, anziché una destinazione definitiva”[xxxvi]. Corsani ci conferma come “nel giudaismo del tempo, il paradiso era il luogo in cui i giusti aspettavano il giorno della risurrezione […] Con quella risposta è come se Gesù gli dicesse: «Tu sei stato condannato come un criminale, ma io ti conto fra i giusti che attendono la risurrezione»”.[xxxvii]
In ogni caso, mi pare più convincente di tutte la spiegazione offerta da Bacchiocchi[xxxviii], quando sottolinea che l’avverbio “oggi” si trova fra il verbo “dico” e il verbo “sarai” e quindi, da un punto di vista meramente grammaticale[xxxix], può applicarsi all’uno o all’altro. Se inteso come riferito al primo, è come se Gesù avesse risposto al ladrone: “non c’è bisogno di attendere che io torni alla fine dei tempi, nel mio Regno, poiché già ora io ti confermo che sarai con me in Paradiso”.
L’esegesi di Bacchiocchi è avvalorata da numerosi commentari[xl] e anche dall’evidenza manoscritta della versione siriaca curetoniana[xli]. A quanto sopra, si aggiunga anche che la frase pronunciata da Gesù ricalca una tipica costruzione semitica[xlii], dove l’enfasi ricade su “oggi” quale tempo in cui viene formulata la promessa[xliii].
L’importanza della corretta esegesi di questo passaggio neotestamentario è sottolineata dal fatto che Cullmann gli dedica la nota più lunga in tutto il suo libro.
Conclusione
Se alla morte l’anima si separa dal corpo per raggiungere la beatitudine nei cieli, quale sarebbe il senso dell’attesa escatologica? Che senso hanno le parole di Paolo quando parla dell’ansiosa attesa del ritorno di Cristo per la nostra salvezza (Eb 9:28)? Quale e quanta importanza si potrà mai conferire all’attesa della parusia del nostro Signore Gesù Cristo (Mc 13:32-37)? Domande retoriche che hanno una risposta scontata: ben poca!
Quali sono i frutti di quello che Oscar Cullmann definisce il più grave dei fraintendimenti che riguarda il cristianesimo? Anche per questa domanda, la risposta è più che mai sotto gli occhi di tutti: il dualismo greco crea nell’immaginario del “fedele medio” una dicotomia (in realtà inesistente) tra la sfera religiosa e quella secolare, orientandone l’agire nella vita quotidiana verso quel fenomeno sociale noto con il termine di secolarizzazione.
Uno dei suoi pensieri conclusivi sottolinea, una volta di più, l’importanza dell’attesa, sia per i vivi sia per i morti:
Noi attendiamo, e i morti attendono, anche se il ritmo del tempo sarà per loro diverso che per i vivi, e quindi questo periodo intermedio può essere abbreviato per loro. Ci si potrebbe rimproverare di oltrepassare, con questa osservazione, il punto di vista dell’esegesi, contrariamente alla rigorosa aderenza ai puri dati del Nuovo Testamento che ci siamo fin qui imposta; noi siamo convinti tuttavia di non abbandonare neppure qui le basi esegetiche del nostro lavoro, in quanto l’espressione «dormire», la più usata nel Nuovo Testamento per indicare lo stato intermedio, ci invita a concepire una diversa coscienza del tempo, quella appunto, di «coloro che dormono».[xliv]
La vita di un cristiano è una vita in attesa, così come la morte di un cristiano è una morte in attesa: l’attesa della grandiosa aspettativa del ritorno di Cristo e della resurrezione finale dei morti a completamento del piano soteriologico. L’anima immortale uccide ogni forma di attesa, depotenzia il vivere cristiano di quella tensione escatologica che caratterizzava la Chiesa delle origini e che dovrebbe essere la linfa vitale anche per il cristianesimo moderno.
Nonostante siano passati 70 anni, la lectio magistralis tenuta da Cullmann continua a ricordarci come la dottrina di Socrate e di Platone elimini l’attesa e sia quindi radicalmente incompatibile con l’insegnamento che si trova nel Nuovo Testamento.
Francesco Arduini
articolo pubblicato su IlTalebano.com
[i] Esegeta luterano e storico delle origini cristiane, nato a Strasburgo il 25 febbraio 1902. Prof. a Strasburgo (1930-38 e 1945-48), a Basilea (dal 1938) e contemporaneamente (dal 1949) all’École des Hautes-Études di Parigi. Nelle sue opere filologico-storiche manifesta vivo interesse per i problemi teologici e spirito ecumenico. Cfr. Enciclopedia Treccani online, ad vocem, https://www.treccani.it/enciclopedia.
[ii] O. Cullmann, Immortalità dell’anima o risurrezione dei morti?, Paideia Editrice, Brescia, 19863. Escludendo la prefazione e l’introduzione, il libro in oggetto consta di sole 40 pagine, cioè 20 fogli in formato A5.
[iii] O. Cullmann, op. cit., p. 15. Corsivo aggiunto.
[iv] Pubblicato in Theologische Zeitschrift, n. 2, pp. 126 ss, dall’editore F. Reinhardt, Basilea, 1956.
[v] O. Cullmann, op. cit., p. 9.
[vi] Ivi, p. 8, nota 2.
[vii] https://www.vatican.va/archive/catechism_it/p1s1c2a2_it.htm, consultato il 13 luglio 2024, ore 17.00.
[viii] Cfr. DH 1440.
[ix] Fedone, 105d.
[x] A. Polisano, L’anima. Antologia da Platone e da Aristotele, Loffredo Editore, Napoli, 1993.
[xi] Se non diversamente indicato, la versione biblica da me utilizzata è la La Bibbia. Nuovissima versione dai testi originali, San Paolo, Cinisello Balsamo 1987.
[xii] O. Cullmann, op. cit., p. 23.
[xiii] Fedone, 67a.
[xiv] Ivi, p. 25.
[xv] G. Ravasi, Breve storia dell’anima, Arnoldo Mondadori Editore, Cles, 20107, p. 100.
[xvi] Ivi, p. 162.
[xvii] Così insegna la classica teoria di Harnack sull’ «ellenizzazione del cristianesimo». Cfr. G. Visonà (a cura di), S. Giustino, Dialogo con Trifone, Edizioni Paoline, Milano, 1988, p. 33.
[xviii] S. Bacchiocchi, Immortalità o risurrezione?, Edizioni ADV, Impruneta, 2003, p. 20.
[xix] Citato anche da Cullmann, a p. 59.
[xx] G. Visonà, op. cit., p. 262.
[xxi] O. Cullmann, op. cit., p. 31.
[xxii] J. Barr, Semantica del linguaggio biblico, Edizioni Dehoniane, Bologna, 1980, p. 23.
[xxiii] H. Balz, G. Schneider (a cura di), Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, Paideia Editrice, Brescia, 2004, ad vocem.
[xxiv] O. Cullmann, op. cit., p. 33.
[xxv] Ivi, p. 35, 36.
[xxvi] Cfr. nota 9 di pagina 36 e 37.
[xxvii] O. Cullmann, op. cit., p. 46.
[xxviii] Ivi, p. 50.
[xxix] Ivi, p. 56.
[xxx] S. Bacchiocchi, op. cit., p. 231.
[xxxi] Corsivo aggiunto.
[xxxii] O. Cullmann, op. cit., p. 50
[xxxiii] P.H. Menoud, Dopo la morte: immortalità o resurrezione?, Claudiana, Torino, 1966, p. 62
[xxxiv] Ibidem, nota 91. È possibile che “seno di Abramo” sia semplicemente un’espressione per indicare la condizione di favore presso Dio piuttosto che un luogo letterale. Interessante in proposito il commento di Abelardo: “Sia il Vecchio sia il Nuovo Testamento sembrano, dunque, indicare che ciò che fu detto a proposito dell’inferno deve essere inteso in senso mistico, non letterale: come dev’essere inteso in senso spirituale e non letterale quel seno di Abramo in cui fu accolta l’anima di Lazzaro, così come inferno spirituale va inteso anche quel tormento nel quale è sepolta l’anima del ricco”. Cfr. Pietro Abelardo (trad. it. a cura di C. Trovò), Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano, Fabbri Editore, Milano, 1996, p.150, 151.
[xxxv] Tradotta in italiano col titolo di Risurrezione, Claudiana, Torino, 2006.
[xxxvi] Ivi, p. 510, nota 114.
[xxxvii] B. Corsani, I vangeli sinottici, Claudiana, Torino, 2008, p. 261.
[xxxviii] Cfr. S. Bacchiocchi, op. cit., pp. 215 ss.
[xxxix] Nei manoscritti originali non esisteva la punteggiatura; l’aggiunta dei due punti avviene squisitamente su base teologica.
[xl] Cfr. p.e. E.W. Bullinger, A Critical Lexicon and Concordance of the English and Greek New Testament, Longmans, Green & co., London, 1895, p. 811.
[xli] Codice in pergamena del V secolo che riproduce la vetus Syra, risalente al II-III secolo. Cfr. S. Cingolani, Dizionario di critica testuale del Nuovo Testamento, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2008, p. 78.
[xlii] G.M. Lamsa, Gospel Light, Comments on the Teachings of Jesus from Aramaic and Unchanged Eastern Customs, A.J. Holman Company, Philadelphia, 1936, pp. 303, 304.
[xliii] Cullmann e Menoud credono invece che l’enfasi ricada su “con me”.
[xliv] O. Cullmann, op. cit., p. 57, 58.
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