Georg Fohrer: Strutture teologiche dell’Antico Testamento
Uno tra i principali motivi che diedero impulso alle riflessioni sull’Antico Testamento fu il tentativo di comprendere se il Dio echad veterotestamentario fosse anche il Dio di Gesù e della fede cristiana. L’Antico Testamento era in contraddizione con il Nuovo, oppure quest’ultimo era in accordo col primo e ne rappresentava una possibile naturale evoluzione di pensiero?
Il libro[1] in oggetto affronta quelli che potrebbero essere definiti i maggiori “problemi” della lettura dell’Antico Testamento; problemi che al contempo costituiscono uno stimolo alla ricerca e a un incontro con la critica storica, la scienza storica e la storia delle religioni: una riflessione teologica a 360 gradi che oggi, giustamente, viene presentata come irrinunciabile. Quello che Fohrer si propone di fare è di condurre il lettore alla conoscenza del “vero senso storico” delle narrazioni veterotestamentarie, e lo fa ponendo subito il problema del Sitz im Leben:
al momento della sua formazione uno scritto, di solito, non ha bisogno di alcuna spiegazione; ne ha invece, se deve essere messo in mano a lettori di altri tempi o ambienti, che necessitano di certe conoscenze per capire lo scritto diventato talvolta incomprensibile[2].
Le interpretazioni accolte negli anni sono molte (da quella “allegorico-cristologica” a quella “tipologica”, passando dalla “visione storico-salvifica” fino alle più estreme che chiamano in causa il concetto dell’ “inerranza”) e molti sono i problemi interpretativi ad esse collegate; ma questi non devono costituire un freno alla riflessione teologica sull’Antico Testamento che, come punto di partenza, ha quello ben riassunto dal nostro autore:
[…] questi scritti contengono una parola o un’azione divina, non riguardano solo gli uomini di quel tempo, ma costituiscono un invito e un messaggio, che può essere percepito sempre di nuovo. Vengono però trasmessi nel contesto di una fede, formatasi in un determinato periodo e situazione, e in una teologia che è la formulazione storica di quella fede. […] deriva la necessità, da un lato, di portare il problema della rivelazione di Dio nell’Antico Testamento, dall’altro, di studiare più esattamente le varie espressioni veterotestamentarie di vita, tanto più che si tratta di atteggiamenti tipici umani e non rivelati o voluti da Dio[3].
La rivelazione di Dio
Il grande interrogativo che guida le riflessioni è: “Dio si rivela veramente?”, e se sì, “come”? Un dato di fatto è che noi non possediamo più i testi originali e, quelli che abbiamo, presentano errori di diversi tipi: glosse e aggiunte finite nel testo principale, errori di copiatura, correzioni dogmatiche, etc… Un altro aspetto importante è che nell’Antico Testamento Dio non parla del suo essere e della sua essenza; l’ontologia veterotestamentaria è di tipo relazionale: Dio si rivela nella vita dell’uomo e del suo popolo; si rivela come “interazione”, nel suo agire nei confronti dell’uomo. La rivelazione avviene “in un concreto a tu per tu di Dio con l’uomo per la salvezza o per la rovina, per affidargli un incarico o per chiedergli una decisione”. La rivelazione è un’esperienza personale, che nell’AT si poteva vivere attraverso alcuni mezzi, come gli ‘urim e tummi (dei bastoncini per tirare le sorti), oppure con i sogni (anche se in questo caso l’autore sostiene che fossero prerogativa di circoli particolari, rilevabile nello strato elohistico), o ancora attraverso il messaggero di YHWH, o tramite il kabod, considerato come una forma autonoma di manifestazione di Dio, o anche attraverso lo spirito, la ruach elohim, considerata come una forza impersonale che emana da Dio[4]. Si tratta sempre e comunque di un “faccia a faccia” fra Dio e l’uomo. Non si tratta di un fenomeno “obiettivamente percepibile”. Quando una persona (o un profeta veterotestamentario) narra/scrive la sua esperienza personale di “rivelazione”, l’uditore/lettore deve decidere personalmente se accettarla o rifiutarla: non esistono criteri esterni che offrano risposte matematiche.
Israele adora i dèmoni (?!)
Quella di Israele, evidenzia l’autore, è “la storia del conflitto della fede veterotestamentaria con due potenze ad essa opposte e perfino nemiche[…]: il conflitto con la magia e con la dottrina sapienziale”[5]. Sin dagli albori, quando Mosè lasciò l’Egitto con un “piccolo” gruppo di nomadi israeliti, le pratiche magiche confluirono nella fede israelitica, prima per l’influenza dei culti egizi e poi per quelli cananei e assirobabilonesi. Fohrer sostiene che Israele, divenuto sedentario, avesse codificato dei precisi rituali sacerdotali rivolti ai dèmoni[6] al fine di “ottenerne la protezione”: Israele offriva ai dèmoni animali, frutti, raccolti, etc. Ma queste non erano pratiche che si limitavano alla vita “nei campi” poiché, sempre a parere di Fohrer, le azioni magiche “riempivano la vita quotidiana dell’Israelita”[9]. Fu solo in epoca tarda, con la centralizzazione del culto, che si decise di combattere la magia e la stregoneria e, di conseguenza, gli avvenimenti della vita rurale vengono riportati a Dio.
Persino la circoncisione fu inizialmente una pratica attuata per “la protezione da dèmoni”.[10] Fu solo durante l’esilio babilonese che, non potendo esercitare nessun culto, gli israeliti trasformarono questa pratica in un rito che esprimesse la loro appartenenza al dio Yhwh. Fu sempre durante questo periodo che le leggi e i tabù sui cibi, vennero modificate e ampliate fino a divenire una “professione di fede” che li distinguesse dagli adoratori di dèi stranieri. Lo stesso tipo di trasformazione/evoluzione la si ebbe in merito ai miti e alle saghe[11] che vennero estratti da contesti politeistici e riadattati alla fede monoteista (o enoteista che la si voglia definire). Affermazioni simili vengono fatte in merito ai canti, alle lamentazioni, alle profezie, etc. dove vengono rielaborate e riutilizzate concezioni arcaiche esterne. Ad esempio, nel caso del profeta, l’antico israelita non rilevava alcuna differenza sostanziale tra la predizione profetica e la divinazione magica, fatto salvo che il profeta annuncia la parola realizzatrice di Dio mentre i divinatori predicono in base alla forza immanente della loro propria parola.
È impossibile negare le influenze che la fede veterotestamentarie subì una volta che Israele si stanziò nella terra di Canaan. Col tempo, anche presso gli israeliti prevalse la convinzione che il dio Baal fosse responsabile della pioggia, dei raccolti e della fecondità dei terreni, mentre Yhwh intervenisse come protettore delle battaglie e delle guerre[12]. La storia di Elia sul monte Carmelo servì proprio a contrastare questa diffusa convinzione. In diverse pagine di questo libro si pone l’accento sul fatto che Israele, prima di giungere ad una fede definita e centralizzata, ricercasse la protezione dei dèmoni attraverso pratiche di vita riscontrabili lungo tutto il percorso temporale, dall’esodo all’insediamento in Palestina. Una fra queste pratiche viene individuata nel versetto di Levitico 19:9, dove leggiamo:
Quando mieterete la raccolta della vostra terra, non mieterai fino all’ultimo angolo il tuo campo, e non raccoglierai ciò che resta da spigolare della tua raccolta.[13]
Secondo l’autore, ciò che non veniva raccolto costituiva un “dono” ai dèmoni atto ad “assicurarsi il loro favore”[14] poiché da essi dipendeva la fertilità della terra. Basterebbe leggere il versetto immediatamente successivo per accertarsi di quella che invece è la spiegazione fornita dall’agiografo:
li lascerai per il povero e per lo straniero.[15]
Il testo biblico offre una spiegazione completamente diversa da quella offerta dal Fohrer, il quale si cura di non menzionarla minimamente, nemmeno in nota[16]. Perché? Forse perché dà per scontato che tale spiegazione sia l’aggiunta posteriore di un’altra fonte? E su che basi di analisi critico-testuale sarebbe da considerarsi un’aggiunta?[17] Oppure l’ha omessa perché parte dal presupposto apodittico che Israele attuasse rituali demoniaci, cadendo così in un’argomentazione circolare?[18]
Riporto un altro esempio: fra i diversi metodi di “rivelazione” vengono giustamente menzionati i “sogni”. L’autore sostiene che questo metodo (il “sogno”) era prerogativa di circoli particolari, rilevabile nello strato elohistico[19] (fonte E). Se però andiamo al capitolo 28 del libro della Genesi si parla di una rivelazione avvenuta tramite un sogno (v. 12 ss), e il capitolo 28 è attribuito alla fonte sacerdotale (P). Come mai questa contraddizione? Forse perché Fohrer dà per scontato, senza informare in alcun modo il lettore, che i versetti dal 10 al 22 appartengano alla fonte E, così come insegna Wellhausen. Ma che tipo di giustificazione testuale viene fornita per questo cambio di fonte che spezzerebbe in due un capitolo che presenta il racconto come un continuum narrativo?[20] Nessuna. Il racconto non presenta segni della tecnica della ripresa, non ci sono interruzioni o doppioni che possano fare pensare ad una seconda mano. Quindi? Quindi, come dice senza mezzi termini Jean Louis Ska, la fonte E è come un “fantasma” che compare negli “angoli oscuri del Pentateuco” e che serve a risolvere i problemi che la stessa teoria delle fonti fa sorgere[21]. Sempre per usare le parole di Ska, “[i]l pericolo di molte argomentazioni è la loro circolarità: si parte da un ‘concetto’ sulla natura di [una fonte] per delimitare i testi, e poi si definisce la natura d[i tale fonte] sulla base di questi testi”.[22]
Alcuni (pochi) spunti interessanti
Assai stimolante è il successivo argomento affrontato: “esiste nella fede veterotestamentaria un nucleo centrale?” Sono stati espressi molti pareri nel corso degli anni, da Gerhard von Rad secondo il quale l’oggetto della teologia veterotestamentaria è “l’insieme delle testimonianze dell’azione di Dio nella storia”, a Ludwig Kohler che identificava il centro dell’AT con il concetto di un “Dio che esiste”, o secondo Walther Eichrodt per il quale era l’ “alleanza” fra Dio e l’uomo a costituire il punto centrale della teologia dell’Antico Testamento. A parere dell’autore, il nucleo va ricercato nei concetti di “sovranità di Dio e comunione con Dio”. Questi concetti si impongono con forza attraverso numerosi versetti biblici: Salmo 62, Salmo 66, Salmo, 100, Amos 3, Osea 5, etc. La “sovranità” è il legame che lega Dio al suo popolo, un Dio che non vuole spartire la sua sovranità con altri dèi, e un popolo al quale è richiesta esclusiva adorazione: una concezione di fede tipicamente israelita e per nulla comune nell’antico Oriente. Lo stesso dicasi per la “comunione” con Dio, che veniva espressa attraverso vocaboli di famiglia, tipo “Padre/figlio” e che si rifletteva anche nella prassi sacrificale (sacrificio di comunione / pasto della comunità).
Fohrer sottolinea come “[i]l duplice scopo di ogni pensiero, volere e azione di Dio è, secondo le concezioni dell’Antico Testamento, la sovranità di Dio e la comunione con Dio”[23] che si esprime nella fede personale quale dimensione della pienezza della vita. Si accetta e si sopporta ciò che viene da Dio anche se sembra irrazionale; “sembra”, perché invece c’è sempre una ratio, anche se è nascosta e non immediatamente rilevabile.
Ottima anche la disamina di Fohrer sulla concezione profetica della storia. Secondo questa concezione, è possibile distinguere due modi per valutari gli eventi storici come conseguenza dell’azione di Dio e come conseguenza della risposta dell’uomo: attraverso avvenimenti del passato o attraverso avvenimenti del futuro. Nel primo caso i profeti evocano avvenimenti del passato per introdurre e razionalizzare avvenimenti del presente dove Dio interviene a punire la nazione disubbidiente. Il movente dell’intervento divino è quasi sempre l’allontanamento di Israele da Dio a causa del culto cananeo o della vita agiata raggiunta. Israele è il popolo di Dio (questo rapporto di appartenenza è di solito basato sulle narrazioni che si rifanno all’esodo dall’Egitto), e in quanto suo popolo Dio richiede che venga rispettata la Sua sovranità, in caso contrario si avvererà il giudizio di distruzione pronunciato dai profeti, sempre che non avvenga prima la conversione.
Mentre nel primo caso il focus è su un avvenimento del passato, nel secondo caso il focus è sull’avvenimento futuro: gli avvenimenti “storici” servono a descrivere concretamente gli avvenimenti futuri. Nel primo caso ci si dilunga sulla descrizione dell’agire passato di Dio e lo si attualizza alla situazione presente, nel secondo caso ci si dilunga nella descrizione dell’intervento futuro (quale eco di avvenimenti passati) e lo si rivolge ai contemporanei. In ambo i casi, il “problema” è nel presente e si rivolge ai contemporanei. Si richiama l’attenzione sul profeta Isaia, il quale rivolge l’invito a non concentrarsi su una grande quantità di azioni cultuali per dare evidenza di conversione e ricercare la salvezza (Is. 1:10-17). La cosa determinante è compiere il bene e far collimare la fede con la vita. Cosa deve fare l’israelita? Deve avere gli insegnamenti di Dio nel suo cuore e farli diventare parte della sua vita quotidiana; come afferma Geremia: “[p]orrò il mio insegnamento nel loro intimo e lo scriverò nei loro cuori”.
In ultimo, il nostro autore affronta la “storia delle origini”, principalmente contenuta nel libro della Genesi. Si tratta di una storia che ha origine in più fonti, poi raggruppate nel testo. Quello che Fohrer giustamente sottolinea (e che non si ribadirà mai abbastanza) è che le informazioni esposte nel Sefer Bereshit non sono da leggersi su un piano scientifico. Genesi non è un libro scientifico! Non vi è quindi ragione di turbamento nello scoprire che la visione scientifica moderna non sposa la visione genesiaca. La verità teologiche di un Dio dal quale tutto si origina, mantiene in pieno la sua forza, così come la verità di un uomo il cui destino è legato a questo Dio. Quello che possiamo leggere non è “storia” come definita dalla moderna metodologia, ma sono riflessioni teologiche e interpretazioni religiose sulla storia.
Una precisazione che mi sarebbe piaciuto leggere (ma che l’autore non ha ritenuto degna di nota) è che questo non significa che nelle singole narrazioni non vi possa essere anche una certa dose di storicità (rintracciarle è compito dello storico e dell’archeologo); è importante tenere a mente che la storiografia non è lo scopo per il quale queste narrazioni furono compilate.
Conclusione
Il testo ha alcune sezioni condivisibili ma per lo più (a mio parere) risente di un’impostazione troppo dogmatica, apodittica, decostruzionistica[24], figlia di un tempo ormai passato (visto anche l’anno di pubblicazione originaria[25]) che si rifà a un’esasperata concezione wellhauseniana ormai abbandonata.
Sarebbe stato apprezzabile un approccio che valorizzasse anche gli aspetti sincronici ai testi. Sempre per citare Ska, l’approccio sincronico
risulta più fecondo di alcuni studi sulle fonti che hanno atomizzato il testo senza rendere la lettura più agevole e, soprattutto, senza arricchirne la comprensione[26]
Onestamente, mi meraviglio di come alcuni corsi di teologia consiglino ancora opere come queste quando invece esistono testi che affrontano le complessità diacroniche, senza nasconderle o sminuirle, e che al contempo sono in grado di valorizzare dovutamente anche l’approccio sincronico attraverso il metodo storico-teologico. Ottimi tentativi in tal senso, ad esempio, si possono leggere a firma di Gleason Leonard Archer, Gerhard Franz Hasel o dello stesso Jean Louis Ska.
Francesco Arduini
[1] G. Fohrer, Strutture teologiche dell’Antico Testamento, Paideia Editrice, Brescia, 19802.
[2] Ivi, pag. 17.
[3] Ivi, pag. 46.
[4] Ivi, pag.56.
[5] Ivi, pag.71.
[6] Ivi, pag.74.
[7] NR 2006.
[8] G. Fohrer, op. cit., pag. 74 (corsivo aggiunto).
[9] Ivi, pag.77.
[10] Ivi, pag. 135.
[11] Le “saghe” si differenziano dai “miti” in virtù del loro nucleo eziologico.
[12] G. Fohrer, op. cit., pag. 151.
[13] Lev 19:9, NR.
[14] G. Fohrer, op. cit., pag. 74.
[15] Lev 19:10b, NR.
[16] Cosa che invece fa in altre occasioni non significative, come ad esempio nella nota 14 di pag. 122, quando in merito al Primo Comandamento afferma che la conclusione della frase (“di fronte a me”) è un’aggiunta posteriore. Anche qui non viene offerta alcuna spiegazione (palesando una circolarità argomentativa) ma quantomeno informa il lettore di questa chiave di lettura.
[17] “Eine literarkritische Möglichkeit ist jedoch noch keine literarkritische Notwendigkeit”, Noth, M., 1 Konige (BKAT 9/1; Neukirchen-Vluyn 1969§) pag. 246.
[18] A mio giudizio, Fohrer avrebbe dovuto argomentare la sua affermazione alla luce del versetto successivo che la contraddice.
[19] G. Fohrer, op. cit., pag. 53.
[20] Tanto più che oggi ben pochi studiosi parlano ancora di fonte E.
[21] Fra gli “angoli oscuri”, Ska cita proprio Genesi cap. 28. Vedi J.L. Ska, Introduzione alla letteratura del pentateuco, EDB, Napoli 2006, pag. 150.
[22] Ivi, pag. 168.
[23] Ivi, pag. 167.
[24] Con “decostruzionismo” intendo quell’indirizzo critico-letterario affermatosi negli anni ’70 che tende a rilevare ed esaltare le contraddizioni, le lacune e il senso nascosto di un brano, concentrandosi quasi esclusivamente sulla valenza diacronica del testo.
[25] La prima edizione è dell’anno 1972.
[26] J.L. Ska, op. cit., pag. 7.
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