ELOGIO DEL POLITEISMO, quello che possiamo imparare oggi dalle religioni antiche
I pregi del politeismo e l’intolleranza del monoteismo
Maurizio Bettini, professore emerito di Filologia classica presso l’Università di Siena, è l’autore di questo breve ma “intenso” libro che, già dal titolo, si colloca provocatoriamente su un piano di sfida culturale verso la concezione monoteistica del religioso e del sacro. Il libro è caratterizzato da una magistrale, quanto scorrevole, esposizione degli argomenti atta a “esplorare ciò che il politeismo antico, e in particolare quello romano, potrebbe offrire oggi alle nostre società” sul piano dell’esperienza concreta. Per una persona che come me si definisse “cristiano”, si tratta di una lettura “difficile” più per l’aspetto emotivo che per quello intellettuale.
L’iniziale difficoltà ad abbracciare la tesi esposta dal Bettini è dovuta alla concezione che il cristianesimo ha da sempre avuto e alimentato contro le religioni antiche, classificandole come false, erronee, demoniache, pagane, idolatre, superate, politeiste, etc. Come evidenzia il nostro autore, “affermare che la religione dei Greci e dei Romani è superata corrisponde né più né meno a dichiarare che la poesia di Omero o quella di Virgilio sono superate”. Le riflessioni esposte nel libro non vogliono convincere il lettore che la “poesia di Omero o di Virgilio” sia migliore o peggiore di quella di “Dante” (per restare nella metafora) ma vogliono mettere in evidenza come nella prima siano presenti aspetti che ancora oggi potrebbero avere un certo “cash-value”.
Le argomentazioni prendono spunto da alcuni passati avvenimenti[1] di cronaca che potrebbero essere definiti paradossi (e paradigmi) della nostra società: da un lato, la proposta di eliminare dalle scuole il presepe[2] per non offendere la sensibilità religiosa di chi non si professa cristiano, dall’altro lato l’eliminazione dei simboli religiosi altrui (non cristiani), edifici di culto compresi[3]. Entrambi questi estremi trovano ragione nello stesso quadro mentale: il monoteismo, così come insegnato dalle religioni del Libro. “Non avrai altri dèi di fronte a me”, “…distruggerete i loro altari, farete a pezzi le loro stele e taglierete il loro pali sacri”, “Non devi prostrarti ad altro dio…”, e altri insegnamenti simili presenti nell’Antico Testamento, inducono a pensare nel primo caso (cioè quando si prospetta la rinuncia ai propri simboli religiosi) che chi professa la religione diversa sia anch’egli monoteista e intollerante verso i nostri simboli; nel secondo caso (quando si prospetta la distruzione dei simboli altrui) che esista un solo dio, il nostro, che ci invita all’eliminazione del “diverso”. Per l’autore, si tratta in ambo i casi di una manifesta, quanto negativa, incapacità culturale di essere politeisti, cioè “di saper integrare le divinità all’interno dello stesso sistema religioso” e la conseguenza, in ogni caso, è sempre e solo una: l’intolleranza religiosa.
Per rimanere al “presepio”, Bettini spende alcune pagine per dimostrare come gli elementi che lo costituiscono, anche e soprattutto quelli di cui non vi è menzione nei vangeli, hanno lo scopo di rafforzare la memoria culturale legata al monoteismo: il bue e l’asinello collocati accanto a Gesù introducono il protagonista nella “schiera di bambini mitici”, quali Ciro il grande, Romolo e Remo e il piccolo Zeus. Così come la presenza dei tre magi, che sta a dimostrare come le “altre” religioni debbano prostrarsi al figlio di Maria. La costruzione e la composizione del presepe contiene quindi un implicito richiamo al monoteismo di origine mosaica persuadendo in “maniera inconsapevole” del fatto che “vi sia spazio solamente per un unico e vero dio”.
Di contro, il nostro autore volendo cercare una festività antica che si possa mettere in parallelo con il “rito del presepe”, si sofferma a esaminare il larario delle antiche case romane, che era costituito da un’edicola che conteneva le immagini dei Lares[4], delle statuette. Il punto interessante, e documentato nelle pagine con precise indicazioni alle fonti storiche, è che le statuette in questione rappresentavano divinità diverse e nessuna di queste richiedeva la sottomissione delle altre. Da una parte (presepe) abbiamo quindi la divinità esclusiva, alla quale anche i magi si devono inchinare, dall’altra (larario) abbiamo divinità varie che convivono senza particolari problemi.
Il nocciolo dell’argomentazione è quindi il monoteismo come causa di intolleranza. Per dirla con le parole dell’autore: “[i]l monoteismo ebraico si presenta come una «contro-religione», che in quanto tale nega ogni legittimità a tutte le altre religioni e con esse alle divinità che vi sono onorate”. Per quanto le argomentazioni esposte siano, tutto sommato, condivisibili nelle intenzioni, a parer mio Bettini si avvale di un’esegesi un po’ troppo “spicciola”, almeno in questa occasione. Il divieto di adorare altri dèi sarebbe una prova, secondo lui, che all’inizio della storia di Israele, questi dèi venissero considerati reali. Bettini sentenzia: “solo così si spiega la «gelosia» del dio di Israele nei loro confronti”; fu solo in seguito che essi assumeranno i tratti di “falsi” dèi, o demòni.
Alcune perplessità
A mio giudizio, quella del Bettini è una “equivalenza” formulata un po’ troppo velocemente: non è qui il caso di discutere l’originale contesto politeistico all’interno del quale nacque e si mosse la storia del popolo di Israele[5], ma affermare che persino Yhwh ritenesse reale l’esistenza degli altri dèi, perché altrimenti non si sarebbe definito “geloso”, mi sembra ignorare con un po’ troppa leggerezza possibili diverse chiavi di lettura. Ad esempio, Dio avrebbe potuto definirsi “geloso” non a motivo della reale esistenza di altre divinità ma a causa del fatto che gli israeliti potessero disperdere “energia cultuale” (se così mi è dato di definirla) indirizzandola su divinità inesistenti[6]. Approfondire l’argomento ci porterebbe lontano dallo scopo di questo breve articolo ma, pur non condividendo la posizione apodittica di Bettini, non si può evitare di dargli ragione nelle conclusioni: il monoteismo ha comportato che “nei rapporti fra i popoli fosse introdotta la violenza a carattere religioso, l’ostilità nei confronti di coloro che si rifiutano di onorare il «vero» e «unico» dio”. Così, mentre da un lato abbiamo guerre e persecuzioni compiute in nome del Dio unico, dall’altro abbiamo società politeistiche che non hanno “mai fatto guerre per affermare una religione sull’altra”. Effettivamente, dice Bettini, se si parte dal principio che gli dèi sono molti, non si capisce per quale motivo quelli degli altri dovrebbero essere falsi[7].
Questa caratteristica tolleranza religiosa, o addirittura lo “scambio” di divinità fra diverse società politeiste (Artemis/Diana, Poseidone/Nettuno, Zeus/Giove, etc.) non era solo caratteristica del mondo antico. L’autore ci informa che avviene anche nel mondo di oggi, in determinate culture che non appartengono alla sfera del monoteismo, come ad esempio quella nipponica. In Giappone alcune divinità vengono identificate e scambiate fra shintoismo e buddismo. Restando al Giappone, caso specifico, ma anche unico, citato dal Bettini come moderno esempio di “mercato delle divinità” sarebbe interessante approfondire le ragioni riportate in The International Journal of Peace Studies[8], che sembrano muoversi in direzione contraria alla tesi sostenuta dall’autore:
While one might anticipate that the religiously apathetic Japanese are also tolerant toward religions, this is not the case. On the contrary, many Japanese are intolerant of any strongly held religious faith. The above-cited poll, for instance, indicated that approximately 50 percent of the respondents felt negative toward religion in general. As O’Brien (1996, 21) observes in his analysis of Japanese religious ambivalence, “Christians and religious minorities invariably confront a lack of sympathy, particularly when claiming the free exercise of religion as an exception to governmental regulations. Strong religious beliefs, sharply defined creeds, and concerns about other-worldly salvation appear not merely unnecessary disturbances but foreign and abnormal”.
Anche un più recente rapporto[9] intitolato “Religious Freedom Violated in Japan”, datato 2023, attenziona i preoccupanti livelli di intolleranza religiosa che caratterizza la moderna società giapponese. A differenza del mondo antico, che “sulla carta” si mostrava tollerante anche verso i monoteismi purché questi non turbassero i costumi sociali, sembra che il moderno politeismo (quanto meno quello giapponese) difetti in tal senso. Se un simile atteggiamento intollerante venisse riscontrato anche in altre moderne società politeistiche, ci sarebbe seriamente da interrogarsi sulla validità dell’ipotesi presentata in questo libro (almeno nella sua accezione moderna): certamente il politeismo può essere un fattore rilevante contro l’intolleranza religiosa, ma siamo certi che sia anche il fattore determinante? Per rispondere a questa domanda sarebbe auspicabile un’indagine a 360 gradi su tutte le moderne culture politeistiche. Qui mi limito semplicemente a sollevare il quesito come stimolo per una successiva ricerca.
Il Nome di Dio
Le ulteriori argomentazioni esposte dall’autore chiamano in causa il nome di Dio. Innanzitutto viene citato Giuseppe Flavio, il quale sosterrebbe che per la religione ebraica non era lecito parlare in maniera irrispettosa degli altri dèi. Bettini afferma che Giuseppe Flavio stesse citando dalla traduzione dei Settanta, nella quale effettivamente si legge “non parlerai in modo irrispettoso degli dèi [theoi]”, ma che in realtà questa traduzione greca altera il senso dell’originale ebraico che invece riporta “non maledire la divinità”, in linea con il monoteismo rigido di matrice mosaica. Flavio avrebbe quindi cercato di trovare un “compromesso con il contesto politeistico all’interno del quale viveva”, usando il testo della Settanta e facendo passare il messaggio che non dovessero essere i theoi in quanto tali a esser messi “al riparo dall’offesa” ma il sostantivo in sé, con il quale un ebreo indicava sia gli dèi stranieri sia il proprio e unico Dio.
Anche in questo caso, l’esegesi di Bettini mi solleva più di un interrogativo: che Giuseppe Flavio (ricordo essere un ebreo di famiglia sacerdotale) stesse citando dalla Septuaginta piuttosto che da un testo proto-masoretico, è illazione dell’autore. È invece noto che Flavio citasse tranquillamente da ambedue le fonti.[10] Tantopiù che non mi risulta nemmeno che la traduzione greca sia difforme da quella ebraica. Il testo ebraico riporta
אֱלֹהִ֖ים לֹ֣א תְקַלֵּ֑ל וְנָשִׂ֥יא בְעַמְּךָ֖ לֹ֥א תָאֹֽר
Il sostantivo elohim (che di solito è un plurale di astrazione, o di intensità, con valenza singolare) in questo preciso versetto biblico non è retto da un verbo che possa identificarlo come singolare ed è quindi lecita anche la traduzione “dèi” o, come rendono numerose altre traduzioni, “giudici”.[11] Questa resa traduttiva, oltre che lecita, sarebbe tra l’altro avvalorata dalla seconda parte del medesimo versetto avente funzione sinonimica. Lo stesso Mosè, quale capo e condottiero del popolo, fu identificato come un elohim[12]. Non è quindi il sostantivo elohim a essere stato modificato dalla versione greca, o Giuseppe Flavio a usare la Septuaginta invece del proto masoretico per un qualche “tornaconto” culturale. Invece è la moderna traduzione di quel sostantivo ad aver perso l’originale apertura semantica che permise a Giuseppe Flavio di usarlo lecitamente, tantopiù che i “capi” o “giudici” supremi della cultura politeistica nella quale era immerso, cioè gli imperatori romani, erano spesso soggetti a un processo di divinizzazione.
Tutto questo preambolo serve all’autore per arrivare a ad affermare che nei monoteismi “non c’è bisogno di ricorrere a un nome proprio per designar[e Dio]: basta quello comune”, che sarebbe appunto “Dio”. Siccome sia nel cristianesimo sia nell’islam il Creatore viene difatto designato con questo sostantivo generico, “sembrerebbe ovvio concludere che entrambe le religioni adorano [sic] nei fatti lo stesso dio”, ma questo viene negato da Bettini secondo il quale il Dio dei cristiani non sarebbe riconosciuto come tale dai musulmani, e viceversa. Anche in questo caso ho almeno due decise perplessità che vorrei evidenziare:
- A seguito dei miei numerosi colloqui con persone di fede islamica, non trovo riscontro all’affermazione secondo la quale per un musulmano il Dio dei cristiani non corrisponderebbe al Dio dei musulmani. Difatti Allah[13] viene proclamato da ogni musulmano come il Dio di Abraamo, il Dio di Isacco e persino il Dio di Gesù. Numerosi passaggi del Corano sostengono quanto ho appena affermato; uno fra tutti, nella Sura Al-‘Ankabut, 46 possiamo leggere: “Non dialogate se non nella maniera migliore con la gente della Scrittura [cioè l’Antico Testamento e i Vangeli], eccetto quelli di loro che sono ingiusti. Dite loro «Crediamo in quello che è stato fatto scendere su di noi e in quello che è stato fatto scendere su di voi, il nostro Dio e il vostro sono lo stesso Dio ed è a lui che ci sottomettiamo»”.[14] Alla luce di quanto affermato nel Corano, mi risulta veramente difficile avallare le succitate affermazioni di Bettini. Sempre sulla base della mia esperienza personale, il dialogo con il mondo musulmano cessa quando nel discorso viene introdotta la declinazione trinitaria di Dio. Non è questione di poco conto, poiché se si decidesse di affrontare il dialogo parlando del Dio echad degli ebrei (che è lo stesso dei cristiani ma senza la declinazione trinitaria di origine niceno-costantinopolitana), allora verrebbero meno numerosi punti di attrito e la conversazione potrebbe proseguire in maniera costruttiva[15].
- Bettini afferma che nei monoteismi non c’è bisogno di ricorrere a un nome proprio per identificare Dio. Ma se questo è vero per le società moderne, lo è un po’ meno per quelle antiche. A comprova posso ricordare che il nome personale del Dio di Israele (Yhwh), compare per oltre 7.000 volte nei manoscritti veterotestamentari; sottolineo altresì che la maggior parte dei nomi usati nel popolo di Israele era di tipo teoforico; evidenzio anche come il Sacro Tetragramma venisse usato nelle benedizioni o anche come parte del saluto giornaliero.[16]
Conclusione
Per concludere il mio pensiero in merito a questo libro, trovo le argomentazioni un po’ troppo preorientate verso la tesi che vuole sostenere il nostro autore. Nel complesso però, al netto delle perplessità sopra esposte, difficilmente si può non concordare con Bettini quando sottolinea come le società politeistiche siano rimaste estranee ai conflitti a carattere religioso. La possibilità di indentificare e di stabilire relazioni fra le divinità appartenenti a culture diverse faceva venire meno le ragioni per una guerra di religione: “se già le [..] divinità sono molte, non c’è ragione per negare o combattere l’esistenza di quelle degli altri”. Questo tipo di atteggiamento aperto e tollerante è testimoniato anche nel libro biblico degli Atti, al capitolo 17, nel noto discorso tenuto nell’Areòpago che l’apostolo Paolo rivolse agli Ateniesi lodandoli per la loro disposizione ad accettare dèi che non conoscevano:
vedo che sotto ogni aspetto siete estremamente religiosi. Poiché, passando e osservando gli oggetti del vostro culto, ho trovato anche un altare sul quale era scritto: “Al dio sconosciuto”.[17]
Nelle culture politeistiche, gli “dèi sconosciuti”, gli dèi altrui, non erano visti come una minaccia ma come una risorsa. Nelle culture monoteistiche invece, al di fuori dell’unico Dio c’è solo falsità, errore e inganno. È ovvio che, in quanto a dialogo interreligioso, le prime hanno molto da insegnare alle seconde. Il nostro autore ci informa che esistono anche i politeismi camuffati da monoteismi, che lui chiama “monoteismi politeistici” riferendosi a quelle religioni (in primis la Cattolica) che pur definendosi monoteistiche sono di fatto aperte alla “venerazione” di figure simili alle antiche divinità poliadi, per esempio: San Gennaro, San Pietro, la Madonna nelle sue varie declinazioni, etc. Anche questo tipo di monoteismi opera comunque sempre e solo all’interno del proprio orizzonte religioso: si tratta di una pluralità che resta di fatto esclusiva e chiusa. In una continua comparazione fra società moderna e società antica, Bettini ci informa come gli dèi altrui non erano semplici dèi stranieri, ma erano le divinità dei nemici e in quanto “divinità” era loro dovuto rispetto; in caso di conflitto era importante che questi dèi non cadessero nell’oblio: si doveva garantire loro la continuazione del culto.
Di contro, qualsiasi forma di monoteismo, in ogni tempo, ha sempre considerato il politeismo non come una semplice opinione diversa, ma come un vero e proprio errore, come un’eresia intollerabile; e per quanto nelle moderne società si proclami la tolleranza verso le opinioni religiose altrui, di fatto queste vengono comunque e sempre relegate nella sfera della “disapprovazione”.
Ma quali sono oggi le ricadute pratiche di questo “intollerante” quadro mentale monoteistico? Per chiudere con le stesse parole con le quali conclude Bettini, rispondo che
[p]er restare entro i limiti dell’esperienza italiana […] siamo testimoni di un continuo rapporto di tensione nei confronti degli immigrati, a cui i figli si nega la cittadinanza anche se nati sul nostro suolo; […] essi restano identificati più dalla religione che praticano, dai loro tratti somatici o dalle loro (spesso presunte) abitudini, che non da una proiezione verso una comune appartenenza civica. […] Ecco perché porre l’accento sulla cittadinanza addirittura del divino, come si faceva a Roma, potrebbe offrire una preziosa risorsa non solo intellettuale, ma umana e civile, per una società che spesso dimentica l’importanza di questa nozione.
Ma a questa condivisibile constatazione di fatto, si può realmente contrapporre un ritorno, o una svolta, verso il politeismo? Perché, anche se mai affermato chiaramente, sembra proprio questo il messaggio che intende veicolare il nostro autore attraverso le pagine del libro. Si può realmente sacrificare il monoteismo sull’ara delle antiche divinità? Chi pensa che il monoteismo sia una costruzione sociale di origine umana, può anche rispondere affermativamente. Per tutti gli altri, c’è Gesù.
[1] Temi che ciclicamente tornano all’attenzione dei mass media.
[2] https://www.ilgiornale.it/news/cronache/mogliano-veneto-scuola-elementare-vieta-presepe-rispetto-1792299.html; simili (e cicliche) polemiche anche per eliminare i crocifissi.
[3] L’autore menziona specificamente Oriana Fallaci, che dichiarò di essere pronta a procurarsi degli esplosivi per far saltare in aria i luoghi di culto islamici.
[4] Divinità venerate dai Romani, specialmente nel culto privato presso il focolare domestico con Vesta e con si Penati. Il lare familiare vegliava sulle fortune della casa e a lui i membri della famiglia rendevano culto quotidiano, specialmente alle calende, none, idi. Vedi Treccani online, ad vocem.
[5] Per una chiave di lettura alternativa che vede il politeismo svilupparsi dal monoteismo, e non viceversa, rimando al testo di A. Terino, L’origine del Pentateuco, (Prospettive Evangeliche), Fondi, UCEB, 1986, pagg. 56 e ss.
[6] Difatti già nella tradizione deuteronomistica riscontriamo l’insegnamento secondo il quale Yhwh è l’unico e il solo Dio accanto al quale non esistono altri dèi (De 32, 39), tradizione poi confermata anche dalla scuola di Isaia, la quale insegnava che “prima di [Yhwh] non è stato formato nessun Dio, e dopo [Yhwh] non ce n’è stato nessuno”. Può quindi essere vero l’esatto contrario: se Yhwh fosse stato concepito come un Dio che ritiene reale l’esistenza di altri dèi, probabilmente non lo si sarebbe qualificato con l’aggettivo “geloso”. A parer mio, è da ritenersi che sia la corrente politeistica sia quella monoteistica fossero ambedue presenti sin dagli albori della storia di Israele.
[7] È necessario fare chiarezza su un equivoco che potrebbe nascere dalla lettura di questo testo: se è vero che le società monoteistiche hanno dato origine a guerre di religione per imporre la propria divinità, ciò non significa che le società politeistiche fossero meno guerrafondaie; se per quest’ultime le divinità non erano il fine per cui belligerare, erano certamente lo strumento da invocare per ottenere la vittoria.
[8] Consultabile online all’url https://www3.gmu.edu/programs/icar/ijps/vol5_2/sumimoto.htm, grassetto, aggiunto.
[9] Consultabile online all’url https://unificationnews.eu/religious-freedom-violated-in-japan/.
[10] Lo attesta il libro IX delle Antichità Giudaiche, dove l’autore citando passaggi del libro dei Re e delle Cronache si avvale sia della Bibbia ebraica sia della LXX.
[11] Confronta la Bible in Basic English, la Reina-Valera, la Tintori, la Darby Bible, e numerose altre.
[12] נְתַתִּ֥יךָ אֱלֹהִ֖ים לְפַרְעֹ֑ה – Esodo 7, 1.
[13] Il “nome” Allah condivide la stessa radice del sostantivo ebraico Eloah, che significa “Dio”.
[14] R. Piccardo (trad.), Il Corano, Roma, Edizioni Al Hikma, 2022. Grassetto aggiunto.
[15] A conferma che l’ostacolo sia la concezione trinitaria di Dio, vedi sura Al-Imran, 55, nota 45 in ibidem, p. 71.
[16] Confronta ad esempio il libro di Rut, capitolo 2 verso 4.
[17] Atti 17, 22. Grassetto aggiunto.
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