
Del Divin Dubbio
Un ringraziamento particolare a Stefano Masa per la sua magistrale lettura.

In un tempo in cui la fede è spesso travolta dall’urgenza delle risposte e la teologia tenta di colmare il silenzio con dottrine rassicuranti, la poesia Del Divin Dubbio, di Francesco Arduini, si propone come un itinerario interiore, una teologia del silenzio e dell’invocazione. È un cammino nell’ombra della certezza, ma illuminato da un’intuizione profondamente cristiana: il dubbio non è nemico della fede, bensì sua oscura alleata. In questa lirica, l’autore non si limita a invocare Dio, ma ne interroga il Nome, la Voce, il Tempo e il Silenzio. Ciò che segue è un’esegesi meditata, strofa per strofa, di un testo che si colloca tra lirica orante e riflessione esistenziale.
1. Invocazione iniziale
Oh Sommo Bene, a cui tutto si deve,
creasti il bello mondo e l’anima mia.
Accogli il pensiero che a te umile elevo.
La poesia si apre con una triplice affermazione: la bontà somma di Dio, la bellezza del creato e l’origine divina dell’anima (Genesi 2:7). L’invocazione ricalca la struttura della preghiera classica, dove la grandezza dell’Altissimo è posta in relazione con la piccolezza del singolo orante. Il “pensiero” che si eleva è umile, ma consapevole di rivolgersi all’Origine di tutte le cose, secondo lo stile dei Salmi e dei prologhi danteschi.
2. Il Dio del movimento e della Poesia
Oh Tu, che dai cieli movi le leve,
dall’eterno seme la prima poesia,
odi il mesto affanno onde prelevo!
Dio è qui identificato come Motore degli astri (eco aristotelica e dantesca), ma anche come fonte della poesia stessa: dalla sua eternità proviene la prima poesia, intesa come la Parola creatrice (ebr. dabar) e come promessa escatologica (Genesi 3:15). Il poeta “preleva” il proprio lamento da questo primigenio mistero.
3. La preghiera estrema
Oh Dio, a Te rivolgo parole estreme,
dei dubbi che lastricano la verace via,
ove dello scritto l’errante fa sentiero.

Le “parole estreme” sono le ultime, cioè le più ardite. Sono le parole che nascono dai “dubbi” che lastricano il cammino della “verace via”, la “Via” di cui si parla negli Atti degli Apostoli (cfr cap. 9, 22 e 24). Il riferimento “allo scritto”, ovvero alla Sacra Scrittura, identifica la guida seguita dall’Errante (nel suo moderno duplice significato di pellegrino e di peccatore) lungo il sentiero .
4. Il silenzio e il Mistero
In triste stilo il silenzio vuoto preme.
Oh Mistero, è il Tuo tempo altra melodia
o la sorda fede è che freme invero?
Il “triste stilo” è una penna ferita, è il dolore che si fa scrittura. Il “silenzio” qui non è pace, ma peso: una pressione esistenziale. L’autore si interroga: il silenzio di Dio è una melodia che non udiamo, oppure è la fede che ha perso l’udito? La fede è “sorda” perché sfinita, o Dio parla in un linguaggio non più comprensibile? La domanda è aperta, radicale, e non cerca una risposta, ma la possibilità stessa di domandare.
5. Memoria e vulnerabilità
E quando alla memoria volgo mente,
fragile animo e debole per innata malìa,
“come lacrime nella pioggia” a sopir il fioco cero:
Il richiamo alla memoria fa emergere la fragilità umana. L’animo è debole “per innata malìa”: è una condizione originaria, è il peccato adamico che causa la caduta antropologica. La citazione da Blade Runner (“lacrime nella pioggia”) è una cesura che spinge a chiedersi se la trama della vita sia realtà o finzione (cinematografica). Il cero, simbolo della fede razionale, si spegne dolcemente, con dignità. È la liturgia dell’effimero.
6. Responsabilità e dilemma
è Tua la muta spada che colpisce ferale,
o nel cieco dilemma del libero arbitrio,
è l’uomo che in Tuo Nome semina male?
Qui la poesia si fa teodicea. Chi è responsabile del dolore? Dio che lo permette, o l’uomo che agisce in suo Nome? L’immagine della “muta spada” richiama l’azione divina che punisce senza parlare; ma l’autore si ferma sul crinale del mistero: è il dilemma del libero arbitrio, reso “cieco” dal nostro limite. Il male fatto “in nome di Dio” è il paradosso ultimo della religione.
7. Il Nome indicibile
Volgo lo sguardo alle Quattro supreme!
Qual è il suono del sacro che non s’ode?
Il più bello Nome ch’ogni lingua elude e treme.

Questa è la strofa mistica per eccellenza. Le “Quattro supreme” sono le lettere del Tetragramma (YHWH), il Nome santo di Dio. Il poeta contempla questo Nome, lo interroga nel suo silenzio fonetico. È un atto di orazione apofatica, in linea con la mistica ebraica e quella cristiana. Il “più bello Nome” è detto solo nel tremore, ed è perciò davvero santo.
8. Il Dio che urla nel silenzio
Tu! L’eterno Dio, che invero non dice,
ma urli nell’oblìo che domani conduce!
Il grido di Dio non è parola, ma urlo nell’oblio. È il Dio che tace come in Giobbe, ma il suo silenzio è densità. L’oblio non è distruzione, ma soglia. Il domani è aperto dal silenzio di Dio, non dalle certezze dell’uomo. La teologia qui diventa poesia negativa: Dio parla più forte non dicendo.
9. Il cercatore stanco
Di tue verità sono un lasso cercatore,
di quel pio fine che è lontano dal sapere,
Il poeta si definisce “lasso” – stanco, affaticato – cercatore di verità. Non pretende di afferarla, ma desidera amarla. Il “pio fine” è la salvezza escatologica, che rimane lontana dalla conoscenza razionale. In rebus divinis pia ignorantia.
10. L’amore che dubita
il dubbio ch’al ciel grido è voce d’amore,
dell’amare col dubbio, di quello fino a cadere.
Il cuore della poesia è qui. Il dubbio è voce d’amore. L’autore non dubita perché rifiuta, ma perché ama fino al limite. L’amore che non dubita è sterile. Quello che dubita e continua ad amare è salvifico.
11. La chiusa dantesca
Par d’esser come il Dante smarrito:
perso nella selva, ove il dubbio ferisce.
Se il dubbio è ferita, è pur scala alla luce,
e “per salir convien discendere”, come Saggio dice.
La chiusa richiama il cammino di Dante: la selva oscura, lo smarrimento, il dolore che diventa via. Il dubbio è ferita, sì, ma anche scala (cfr. Genesi 28:12; Giovanni 1:51); “per salir convien discendere” richiama quanto si può leggere nel canto XXXIV dell’Inferno dantesco. La via alla beatitudine passa per l’umiliazione. Il dubbio diventa descensus ad inferos, ma passato il punto “al qual si traggon d’ogne parte i pesi”, è certa la risalita, è certa la luce, è certo che si tornerà… a riveder le stelle.
La Redazione
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