
Abba. Conoscere, percepire e vivere Dio come Padre
Ci sono parole che non descrivono semplicemente una realtà, ma la creano, la spalancano, la rendono possibile. Una di queste è “Abba”.
Nell’intero corpus biblico non c’è nulla di così semplice e rivoluzionario come questa parola.
Abba, non è un termine carico di concetti filosofici, né un’idea astratta; è l’espressione concreta di un bambino/a che chiama suo padre.
Tuttavia, quando Gesù la pronuncia, essa trascende il suo significato originario per divenire il cuore della rivelazione cristiana.
Nel contesto ebraico del I secolo, Dio era il Santo dei santi, il totalmente Altro, il cui Nome era così sacro da non poter nemmeno essere pronunciato. Era il Dio delle promesse e della Legge, prossimo al Suo popolo, ma anche irrimediabilmente separato da esso.
Ma ecco che Gesù compie un gesto straordinario: abbatte la distanza apparentemente incolmabile tra l’uomo e Dio. Infatti, il termine prediletto da Gesù nel rivolgersi a Dio è Padre.
Questa non è solo una scelta linguistica, ma un atto di fede: un gesto che ridefinisce il rapporto tra l’uomo e il suo Creatore. E Gesù lo fa con la parola più umile e disarmante possibile: “abba”, che in aramaico significa appunto “papà”.
Come spiega Maurizio Sampietro nel suo testo Abba: conoscere, percepire e vivere Dio come Padre (KDP Print 2024), il termine “abba” non è un’espressione come le altre: è il cuore pulsante di una relazione che cambia tutto, perché per chi la pronuncia Dio non è più solo Dio, ma diviene un Padre nella sua accezione più intima e personale.
“Abba” e il nostro bisogno psicologico di un padre
Ma cosa significa per noi, oggi, “abba”? Questa parola parla alla nostra anima, toccando le corde più profonde della nostra psiche.
Come evidenziato da Matteo Martino, negli ultimi anni, assistiamo a un rinnovato interesse della psicologia per il ruolo del padre, testimoniato dal proliferare di pubblicazioni sull’argomento. Secondo Martino
il repentino lievitare della letteratura è provocato dalle ingenti difficoltà che i processi di costruzione dell’identità personale incontrano nell’attuale stagione civile, a motivo della dissoluzione dei codici di senso e della frammentazione dei mondi di vita. Sul piano dei vissuti effettivi e dei comportamenti diffusi, psicologi e sociologi riscontrano oggi, in maniera inequivocabile, un’inedita domanda di padre.[1]
La figura paterna rappresenta infatti un architrave del nostro equilibrio interiore. La sua assenza lascia ferite profonde, destabilizzando il senso di sicurezza e appartenenza.
“Abba”, allora, non è solo una parola: è un grido che nasce dal bisogno umano più profondo, ossia sapere di non essere soli, di essere accolti, amati, guidati.
Questo termine compare solo tre volte nel Nuovo Testamento, ma queste tre apparizioni bastano per edificare un’intera teologia.
La prima di queste volte è in Marco 14:36, nell’orto di Getsemani, quando Gesù, schiacciato dall’angoscia, si rivolge a Dio:
Abba, Padre, ogni cosa ti è possibile; allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che tu vuoi.[2]
In questo momento struggente, Gesù non è il rabbi che insegna né il profeta che proclama. È un figlio che si aggrappa al Padre.
E proprio in questo grido vediamo come “abba” sia la parola di chi si fida anche quando il mondo sembra crollare. Perché, come dimostra Sampietro, avere Dio come Padre non significa fuggire dalla sofferenza, ma affrontarla con la certezza di non essere mai soli.
Dalla distanza ebraica alla prossimità cristiana
Questa concezione rivoluzionaria portata da Gesù fa breccia nelle nascenti comunità cristiane, segnando una cesura profonda con la tradizione ebraica antecedente.
Se nel giudaismo vi era una certa distanza “sacra” che separava Dio dall’uomo, i primi cristiani, non avranno più alcuna reticenza nell’adottare lo stesso linguaggio di Gesù.
Come nota Sampietro, questa rivoluzione lessicale diventa il segno visibile di una metamorfosi spirituale: Dio non è più percepito come un sovrano distante, ma come un Padre vicino, al centro di una relazione personale e trasformante.
Quando percepiamo Dio come Padre infatti si innesca un processo emotivo, psicologico e spirituale di portata straordinaria: Dio non è più un padrone che ci chiede di obbedire, ma un Padre che ci invita a fidarci. Questa è la grande rivoluzione del cristianesimo: non percepirsi più schiavi, ma figli. E in questa filiazione troviamo la nostra vera identità. Gesù non ci insegna un nuovo codice morale, ma un nuovo modo di vivere: come figli.
Tale prospettiva cambia tutto: se Dio è Padre, allora la Legge non è un peso, ma una guida. Se Dio è Padre, allora noi non siamo abbandonati alla nostra fragilità, ma custoditi da un amore che non ci lascia mai. Perché, come evidenza Sampietro, conoscere Dio come Padre significa affidarsi a un Dio che ci conosce nel profondo e che ci ama non sulla base di ciò che facciamo, ma per ciò che siamo.
L’amore del Padre come guarigione
Come dicevamo in precedenza, la figura paterna è cruciale nella costruzione della nostra identità. Quando manca, si creano ferite che possono condizionare tutta la nostra vita.
In questo senso, Dio come Padre risponde a uno dei bisogni più profondi dell’essere umano: sapere di essere accolti, protetti, guidati. Questo ha anche una valenza terapeutica. Perché, come osserva sempre Sampietro, avere Dio come Padre non trasforma solo il nostro rapporto con Lui, ma anche il rapporto con noi stessi e con gli altri.
Percepire Dio come Padre, ci libera dalla paura, ci dona un senso di appartenenza e ci consente di affrontare le sfide della vita con rinnovata resilienza. È una prospettiva che guarisce, perché non parla solo di Dio, ma parla di noi: del nostro bisogno di essere figli, del nostro anelito di essere amati.
Ma come possiamo vivere concretamente questa relazione? Vivere Dio come Padre non è un esercizio teorico, ma un’esperienza quotidiana. Significa, ad esempio, imparare a pregare come faceva Gesù: con semplicità e fiducia, vedendo la preghiera non come un rito, ma un dialogo intimo, simile a quello di un figlio con il genitore. Sampietro lo dice con forza: vivere Dio come Padre non è una fuga dalla realtà, ma il modo più radicale di affrontarla, perché solo un figlio sa che non è mai solo.
Quando nelle Scritture greco cristiane ci imbattiamo nel termine “abba”, non è un concetto da studiare, ma un’esperienza da vivere. È il grido di chi si sente fragile e si scopre amato. È il segreto di una vita che trova senso non nella religione, ma nella relazione.
In un mondo sempre più frammentato che spesso ci relega a una solitudine paralizzante e in cui il senso di appartenenza si dissolve, vivere Dio come Padre è l’atto più rivoluzionario che possiamo compiere. Abba è la parola che ci restituisce a noi stessi, che ci riporta a casa, che ci fa riscoprire la gioia di essere figli. Per questo motivo in un’epoca in cui la letteratura sull’importanza della figura paterna prolifera, il testo di Sampietro è una lettura obbligata che ci riporta tra le braccia del Padre dei padri.
Per chi fosse interessato ad approfondire l’argomento qui può trovare il testo di Sampietro:
[1] M. MARTINO, Il ritorno del padre nella letteratura psicologica, link. Consultato in data 05/01/25.
[2] Mc 14:36 ND.
The Infant Baptism
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