Recensire, tanto per. (Una risposta a Valerio Polidori)

In data 2.03.2014, sul forum “Studi sul Cristianesimo Primitivo”, è stato pubblicato un commento a firma “Teodoro Studita”, con il quale il dott. Valerio Polidori si prefigge di recensire il libro “La Bibbia prima del dogma”, edito dall’Aracne Editrice nel dicembre 2013.

Gli autori intendono qui presentare alcune riflessioni e perplessità che nascono dalla lettura di tale recensione, e che paiono essere indice – nella migliore delle ipotesi – di un’estrema superficialità d’approccio da parte del dott. Polidori. È buona norma non replicare alle recensioni, che vanno semplicemente accolte “nel bene e nel male”, ma in questo caso riteniamo che alcune affermazioni del Polidori non trovino un reale riscontro in quella che è l’esposizione degli autori. Riteniamo non trascurabile il fatto che nel testo dell’Aracne si evidenzi più volte come il Polidori stesso abbia commesso grossolani errori nella sua precedente opera. Non crediamo sia qui il caso di ripeterci e, per verifica, rimandiamo alla lettura del testo recensito. Il nostro timore è che, a motivo di tale situazione, al Polidori sia venuta meno quell’obiettività e sobrietà che dovrebbe caratterizzare ogni buon recensore.

Senza ulteriori preamboli, esamineremo di seguito tutte le rilevanze della suddetta recensione, mostrandone l’oggettiva inconsistenza. La prima nota recensiva del Polidori pare avere il carattere di un attacco ad personam, piuttosto che ai contenuti:

né Arduini né Pizzorni sono specialisti nell’ambito della scienza della traduzione o della filologia biblica.

A tale affermazione rispondiamo che il testo dell’Aracne editrice non si presenta come opera specialistica né in ambito delle scienze traduttive, né in ambito della filologia biblica. Si presenta come un’opera abbastanza divulgativa, seppur compilata con un certo rigore analitico ed approccio scientifico. Gli autori possiedono le competenze necessarie per affrontare un simile lavoro. Sempre per rimanere in tema di “competenze”, rimandiamo alla conclusione del presente scritto per alcune riflessioni e considerazioni su quelle che invece sono le abilità metodologiche del dott. Polidori; il quale continua affermando:

Il lavoro si apre con una condivisibile introduzione sui criteri di traduzione (pp. 13-23)

L’introduzione termina a pagina 22, non a pagina 23. Per quanto questo errore possa sembrare irrilevante, crediamo che sia solo il primo di una lunga sequela, indice di una lettura probabilmente troppa frettolosa del testo. Proseguiamo con gli errori decisamente più gravi commessi dal recensore.

che enuncia, tra l’altro, i principi sottesi all’opera dell’anonimo traduttore della NM. Appena si entra nel vivo della trattazione, tuttavia, iniziano a manifestarsi alcune contraddizioni: alle pp.17-18, ad esempio, sono gli stessi autori a disattendere i principi appena enunciati quando difendono la traduzione di Gv 1,1 “la Parola era un dio” (NM), a motivo dell’assenza dell’articolo davanti a θεός salvo poi rendere “La legge” invece di “legge / una legge” nel caso sintatticamente analogo (ma teologicamente irrilevante) di Rm 3,28.

Alle pagine 17-18 gli autori non “difendono” alcunché. Nelle pagine citate dal Polidori si accenna alla differenza fra “Traduzioni ad equivalenza dinamica e formale” – come recita il sottotitolo a pagina 17 – e il ragionamento verte sul significato del termine δικαιοῦσθαι (Rm 3:28), che alcune traduzioni rendono con il concetto di “giustificazione” ed altre con quello di “accoglienza”. Trattando il versetto di Rm 3:28, gli autori non rendono “La legge”, come virgoletta il Polidori, ma si limitano a citare testualmente la TILC e NVB, come chiaramente indicato nella nota n. 5 e n. 6 di pagina 18. In questo caso, non solo il Polidori attribuisce agli autori una citazione terza, ma – ancor più grave – stravolge il contesto spingendo i suoi lettori a credere che gli autori si contraddicano. E lo fa con un’affermazione palesemente falsa nella sua incompletezza: gli autori non difendono la resa di Gv 1:1 della TNM “a motivo dell’assenza dell’articolo davanti a θεός”. Le ragioni sono decisamente più articolate, così come esposte nel cap. III (pp. 95-154). Polidori prosegue:

Analogamente, le considerazioni sull’uso corretto dell’equivalenza formale secondo cui “Il significato di una parola o di un’espressione può cambiare a seconda del contesto in cui viene usata” (p. 38), come pure rimarcato nella prefazione, sembrano non applicarsi a נֶפֶשׁ (che la NM rende costantemente “anima”) per una precisa scelta dottrinale, proprio il motivo che autori e prefattore sostengono costituisca il principale elemento distorsivo delle traduzioni diverse dalla NM.

Ancora una volta il Polidori fa “sostenere” agli autori ciò che gli autori non hanno mai affermato. Gli autori, alle pagine 38 e ss., riportano quelle che sono le caratteristiche presentate dal Comitato di Traduzione della TNM, secondo il quale la scelta di rendere costantemente “anima” è coerente (per quanto perfettibile) con la caratteristica n. 2, la caratteristica n. 3 e la caratteristica n. 4 (pp 38-40; cfr TNM Rb8, appendice 4A, paragrafo 1, p. 1575). È doveroso far notare che la TNM 2013, attualmente disponibile solo in lingua inglese, è stata rivista attenuando la rigida resa formale, in linea con quanto auspicato dal Polidori.

Ancora, gli autori presentano la NM come opera di un non meglio precisato “comitato internazionale di studiosi” (p. 24) laddove è stato da anni acclarato che nessuno dei cinque traduttori potesse vantare alcuna competenza specialistica nell’ambito delle lingue bibliche.

Gli autori si rifanno alla fonte indicata in nota n. 23 di pagina 24, ovvero ad un articolo del New York Times pubblicato a ridosso dell’edizione originale della TNM inglese. Né affermiamo in alcun punto che tale “international commission of Biblical scholars” fosse costituita unicamente dai “cinque traduttori”. Gli autori rispettano la volontà dei traduttori della TNM di rimanere anonimi e non fanno alcuna speculazione in merito.

Le fotografie che questo comitato fece del papiro Fouad 266 vengono presentate come un elemento cruciale di questo processo, sebbene tale testimone sia rilevante unicamente per la questione della presenza del tetragramma in alcune recensioni della versione greca dell’AT, valutazione sorprendente almeno quanto quella in cui si afferma che il codice di Leningrado “è conservato nell’URSS” (sic, p. 27).

Sulla rilevanza delle fotografie del Fouad 266, ci siamo già espressi nelle pagine 24-25, e non riteniamo sia necessario spendere ulteriori parole; in merito all’ironia sul fatto che il codice di Leningrado sia “conservato nell’URSS”, con tanto di “(sic, p. 27)”, invitiamo il dott. Polidori a usare più attenzione nella lettura dei testi che intende recensire: come chiaramente si evince dalla nota n. 28 (p. 26), dalla formattazione del paragrafo, e dalle due esplicite dichiarazioni del testo, quella dell’ “URSS” è una citazione testuale della TNM del 1987.

Procedendo oltre, gli autori ricordano che nelle note della NM il lettore “viene inoltre indirizzato a testi specialistici dove è possibile approfondire gli eventuali problemi traduttivi” (p. 33) senza tuttavia specificare che tali opere di rimando sono selezionate unicamente tra quelle che possono in qualche modo essere citate a sostegno delle scelte della NM quando esse si discostino significativamente dal consensus accademico.

Immediatamente dopo la citazione del Polidori, è riportata l’immagine della pagina 280 della TNM, nello specifico il cap. 33 del libro biblico di Deuteronomio, come esempio a campione dell’apparato delle note in calce e dei testi specialistici a cui è rimandato il lettore. Nello specifico si tratta del Journal of Theological Studies con l’articolo menzionato in nota 32. Non si capisce bene a cosa voglia alludere il Polidori in quanto, se avesse letto l’articolo, si sarebbe reso conto che effettivamente è utile per approfondire i “problemi traduttivi” di questo versetto, che non risulta né teologicamente né dottrinalmente rilevante e la cui traduzione non gode affatto di alcun “consensus accademico”. Anche in questo caso sarebbe bastato consultare le principali traduzioni in circolazione per rendersene conto.

Analogamente, Arduini e Pizzorni menzionano il fatto che la NM riporti in calce le lezioni varianti dai principali testimoni manoscritti per consentire al lettore di farsi un’idea (p. 40) portando l’esempio di At 20,28, sebbene proprio in quel passo non sia affatto riportata la variante, ma la lezione autentica, mentre la variante (che per di più è un emendamento congetturale!) è inserita in textu.

L’emendamento congetturale al quale si riferisce il Polidori, è l’inserimento di “figlio” a fine versetto. Tale inserimento è chiaramente evidenziato come interpolazione dall’uso delle parentesi quadre. Confermiamo che le note in calce a cui si rimanda (basterebbe prendersi il tempo per leggerle) forniscono informazioni sia sulle versioni varianti (Dio/Signore) che su tale interpolazione. La sensazione è che il Polidori stia forzatamente cercando di allungare la lista di quelli che, a suo parere, sarebbero errori presenti nel testo recensito, inanellando tuttavia un fraintendimento dopo l’altro (frutto di disattenzione o superficialità nella lettura). Polidori continua sottolineando quanto segue:

Nel secondo capitolo si trattano alcune importanti questioni sull’AT. Stupisce qui il modo sbrigativo con cui agli autori liquidano la scelta dei traduttori della NM di ignorare un principio elementare della sintassi ebraica come il waw inversivo (p. 41)

Non si capisce la ragione di tanto stupore, visto che alla nota n. 46, nella stessa pagina citata dal Polidori, gli autori indirizzano ad uno studio specifico sulla questione. Il libro a cui si rimanda è stato, tra l’altro, redatto e tradotto da Pizzorni e Arduini nella sua edizione italiana. Al lettore che volesse approfondire, vengono quindi forniti gli strumenti per farlo. Ma proseguiamo ad analizzare le affermazioni del Polidori:

colpisce il grande spazio dedicato alla scelta della NM di introdurre forzosamente il tetragramma anche nel NT, rifacendosi a vecchie teorie ampiamente rifiutate dalla pressoché unanime totalità degli studiosi.

Anche qui, non è chiaro da cosa scaturisca lo stupore del Polidori, dal momento che l’ampio spazio dedicato a questa scelta – che per altro è una caratteristica peculiare della TNM – dipende proprio, come viene spiegato nel paragrafo introduttivo, dalle molte critiche che questo emendamento congetturale ha suscitato negli studiosi; né risulta chiaro che cosa il Polidori intenda quando parla di “vecchie teorie”, dato che il capitolo non si propone di dimostrare nulla per quanto riguarda la presenza o meno del tetragramma nel NT, ma vuole unicamente “comprendere se la scelta operata dalla TNM è plausibile e coerente con i principi che i traduttori stessi hanno assunto” (p. 46).

In questo frangente, gli autori sollevano obiezioni all’ interpretazione corrente di A.Pietersma secondo cui la LXX non contenesse il tetragramma se non nelle sue revisioni giudaizzanti e, pur accennando ai testi di Qumran, dimenticano di ricordare che proprio quei testi hanno fornito ulteriore evidenza della caduta in disuso del tetragramma in un ambiente ebraico e non certo ellenizzante come nella vulgata delle pubblicazioni della Società Torre di Guardia.

Fuori luogo l’allusione alle pubblicazioni della Società Torre di Guardia, a cui qui gli autori né accennano né fanno alcun riferimento. Stupisce anche l’affermazione secondo cui gli autori avrebbero trascurato di ricordare la caduta in disuso del tetragramma in alcuni ambienti giudaici, visto che a p. 56 (nota 91) si fa riferimento al Documento di Damasco (oltre che a Giuseppe Flavio) e si cita André Lemaire, dicendo esplicitamente che la consuetudine di usare ‘adonaj probabilmente ebbe origine nella diaspora “per poi estendersi gradualmente anche in Giudea”. Per quanto riguarda il trattamento del nome divino da parte dei copisti, si fa riferimento (p. 54, nota 85) agli studi di E. Tov (2004) e P. Skehan (1980), i quali dimostrano la varietà di modi di trascrivere il tetragramma a Qumran, compresa la consuetudine di usare abbreviazioni per il nome divino (p. 57 nota 92) cosa che gli autori non contestano né mettono in dubbio, né influisce sulla tesi generale che viene sviluppata ma che sembra sfuggire totalmente al Polidori.

Purtroppo in questo caso gli autori si spingono alla vera e propria falsificazione, citando un autorevole studio di Tov per fargli affermare il contrario di quanto dica sull’uso dei tetrapuncta (pp. 68-69) proprio in sostituzione del nome divino.

Anche qui al Polidori sembra sfuggire completamente la tesi di fondo sviluppata nel testo: gli autori infatti non vogliono e non hanno bisogno di negare che il nome divino in alcuni manoscritti fosse stato sostituito con forme grafiche particolari (come i tetrapuncta) o altre abbreviazioni (p. 57). La presunta “falsificazione” altro non è che un fraintendimento del Polidori, probabilmente dovuto ad un refuso nel riportare le pagine citate, refuso corretto nella seconda edizione (questo perché il Polidori ha pubblicato una recensione sulla prima edizione del testo, nonostante fosse già in circolazione l’edizione corretta e debitamente pubblicizzata sul sito ufficiale degli autori, a cui il Polidori stesso era stato indirizzato). La frase “laddove doveva essere inserito il tetragrammaton che in seguito veniva aggiunto da un secondo copista” si riferisce ovviamente agli spazi bianchi e non ai tetrapuncta, cosa che comunque Tov non esclude tassativamente ma ritiene essere improbabile, almeno a Qumran, per via dello spazio insufficiente lasciato dai copisti. Egli cita comunque la tesi di Stegemann:

According to Stegemann (Kyrios, p. 155) the four dots indicating the divine name are also evidenced in an early copy of the LXX, P.Fouad 266b of Deuteronomy (middle of 1 BCE), where they were subsequently overwritten by the Tetragrammaton written in small square characters, leaving much space on both sides. Since, according to Stegemann, the dots in this Greek manuscript were replaced by the Tetragrammaton, he suggested that the scribes of the aforementioned Hebrew texts also intended to replace the dots with actual letters.

Polidori continua:

Sulla scorta di tali premesse e su quella — ancor più problematica — che tutti i 27 libri del NT siano stati composti entro il I secolo e in ambiente giudaico palestinese (p. 70), gli autori affermano che “è naturale pensare che, con tutta probabilità, gli scrittori del NT consultassero copie della LXX in cui il nome divino non era stato ancora sostituito da κύριος” (p. 64), donde l’ardua apologia dell’interpolazione del tetragramma nel NT.

Affermazione del tutto gratuita. Gli autori non dicono da nessuna parte che “tutti” i 27 libri del NT siano stati composti nel I secolo, né qui avrebbe alcuna pertinenza: infatti a p. 56 si sottolinea che il processo di progressivo abbandono dell’uso del tetragrammaton nella pratica copistica ebbe inizio molto precocemente, e abbraccerebbe idealmente il periodo che va dal 70 d.C. al 135 d.C. Che fino al 70 il cristianesimo rimanesse un fenomeno fondamentalmente legato al variegato mondo del giudaismo del secondo tempio, seguito poi da un periodo di transizione, ci pare un’affermazione certamente discussa, ma non così problematica come la presenta il Polidori.

L’anelito all’approccio scientifico enunciato nell’introduzione sembra lasciare il passo ad un approccio apologetico nella sostanza quando il testo inizia ad affrontare la traduzione di brani significativi per la cristologia. Gli autori, ad esempio, ricordano in più occasioni che in brani come Fil 2,11 e Gv 1,1 l’intento dell’autore non fosse quello di identificare Gesù con YHWH (p. 82 e scc.) o “l’identificazione del Gesù biblico con il Dio dell’AT” (p. 280) dimenticandosi, tuttavia, che tale lettura teologica di marca modalista non sia sostenuta da alcuno nel panorama degli studi.

Di nuovo il Polidori sembra non riuscire a cogliere il senso della ricerca, continuando a parlare di ipotetiche posizioni confessionali, ma a p. 82 e ss. non si tratta affatto di questioni dottrinali lette anacronisticamente, come il modalismo, piuttosto si discute del significato delle attribuzioni del titolo di kyrios a Gesù nel NT, specialmente nelle lettere attribuite a Paolo. Non ha davvero alcun senso asserire che gli autori “lascino il passo ad un approccio apologetico”, poiché non viene presa alcuna posizione di tipo confessionale o dogmatica, ma ci si limita ad analizzare quelle che sono le differenti posizioni al riguardo.

Più in generale, Arduini e Pizzorni affermano che quando si ha a che fare con passi biblici che possono riguardare la divinità di Cristo tutti i traduttori – salvo quelli della NM – sarebbero influenzati dalla loro cristologia (p. 108), sebbene non menzionino il fatto che anche le traduzioni scientifiche e non confessionali, che difficilmente possono essere accusate di pregiudizio teologico, operano di norma in una direzione nettamente divergente rispetto a quella della traduzione geovista.

Questa è un’altra affermazione del tutto gratuita e fuorviante. Né a p. 108 né altrove, infatti, gli autori affermano che “tutti i traduttori – salvo quelli della NM – sarebbero influenzati dalla loro cristologia”. Si dice solo che analizzando la letteratura ci si può facilmente rendere conto che il numero di passi del NT dove è possibile attribuire a Gesù il titolo di theos è molto variabile, a seconda dell’idea che il singolo studioso si è fatto dello sviluppo storico del cristianesimo: così studiosi liberali tendono ad attribuirlo a Gesù solo in pochi passi, mentre studiosi più tradizionali generalmente ne accettano un numero maggiore. Gli autori non ne fanno una questione confessionale, ma parlano più in generale della “visione complessiva che ciascuno studioso ha dello sviluppo del cristianesimo primitivo”. Inoltre, da nessuna parte gli autori escludono che i traduttori della TNM (che il Polidori chiama erroneamente “geovista”) non possano essere influenzati dalla loro visione del cristianesimo.

Anche in questo caso si assiste a una certa distorsione nella presentazione dell’obiettività, come quando gli autori evocano Moulton per sostenere l’idea che τοῦ ἰδίου in At 20,20 possa sottintendere “Figlio” (p. 112) cosa che, tuttavia, Moulton non ha mai affermato.

Gli autori non citano certo il Moulton per affermare che egli sostenesse che “τοῦ ἰδίου in At 20,20” (sic) sottintende “figlio” ma, come dice esplicitamente la nota 183, solo per dimostrare che in Gv 1,11; 13,1; At 4,23; 24,23 così come nei papiri, era usato “come un termine affettuoso rivolto a parenti stretti…” infatti Moulton traduce con: “One who was his Own”.

Relativamente a questi brani, gli autori si limitano ad ammettere la marginalità della scelta della NM e a giustificarla come “non impossibile” sotto il profilo teorico.

Altra affermazione gratuita, perché da nessuna parte gli autori parlano di scelte “marginali”, se non in riferimento a quelle relative a Ebrei 1:8-9. Per quanto riguarda Giovanni 1:1 (spesso oggetto di critiche) gli autori forniscono invece un’ampia spiegazione di carattere storico ed esegetico.

Proseguendo nella lettura, ci si imbatte ancora in qualche difficoltà, come quando gli autori, commentando la traduzione di Gv 14,14 dichiarano: “si sottolinea che l’edizione critica di riferimento di Nestle e Aland, rende esattamente come la CEI” (p. 153), paragone – tra un’edizione critica e una versione italiana – difficile a intendersi, seguito poi da un pasticcio nella presentazione delle varianti testuali di Gv 1,18 (p. 160) con fonti omesse e grande disordine concettuale.

Il Polidori fraintende – anche in maniera abbastanza grossolana e sorprendente – i termini di paragone, che sono da una parte la TNM e dell’altra la CEI, mentre la Nestle-Aland, la UBS e il Wescott-Hort vengono presentati come metro di giudizio. Le pagine spiegano in maniera sufficientemente chiara come questi metri, utilizzati da molti critici, non possano essere utilizzati per condannare la scelta operata dalla TNM. Da rimarcare come, invece, nel medesimo capitolo del libro, si evidenziano gli errori commessi dallo stesso Polidori nell’affrontare tutta la questione. In relazione alle “fonti omesse” e al “disordine concettuale”, il Polidori preferisce rimanere sul generico: quod gratis adfirmatur, gratis negatur.

A parte va considerata l’ultima sezione del libro, dedicata al tentativo di giustificare il rifiuto di tutta la letteratura geovista (ivi compresa la Traduzione del Nuovo Mondo) di riconoscere la croce quale strumento del supplizio di Gesù, a favore di un semplice palo verticale. Il capitolo è affidato al dr. Simone Frattini, di cui sappiamo solo essere il titolare del sito testimonidigeova.net e non avere pubblicazioni al suo attivo. La sezione sulla crocifissione si apre con una nota di metodo con la quale l’autore prende le distanze dalla letteratura “di parte cattolica” o “di matrice cattolica” (p. 195) ponendosì così in ottica manifestamente apologetica.

Pur ringraziando il Polidori per l’attenzione particolare riservata (“A parte”) al capitolo 6, ci saremmo aspettati di leggere anche una replica alle nostre puntuali osservazioni alla sua opera sulla TNM, dal momento che fa parte della letteratura citata direttamente. Il paragrafo 6.1 del libro specifica e delimita con chiarezza gli obiettivi che la ricerca contenuta nel capitolo 6 si propone di ottenere. Tra quelli, non è menzionato in alcun modo il “tentativo di giustificare il rifiuto di tutta la letteratura geovista (ivi compresa la Traduzione del Nuovo Mondo) di riconoscere la croce quale strumento del supplizio di Gesù”. Il capitolo non verte in alcun modo sulla letteratura dei Testimoni di Geova (che il Polidori costantemente chiama “geovista”, proseguendo l’abitudine dei testi polemici cattolici italiani) che nel capitolo non viene né trattata né mai citata. L’osservazione del Polidori sembra gratuita e piuttosto mossa da uno spirito sgradevolmente polemico. Tralasciando le osservazioni ad personam, ancora una volta indice dello spirito che pervade un po’ tutti gli scritti del Polidori, preme sottolineare, qualora non fosse evidente, che le espressioni “per parte cattolica” o “di matrice cattolica” sono contenute nel paragrafo 6.1, dedicato all’ambito e al metodo della ricerca. In quanto tali, specificano a quali testi è indirizzata l’attenzione di gran parte del capitolo e non indicano un particolare intento apologetico, la cui assenza dovrebbe essere evidente anche solo in prima lettura.

Il testo, che tenta di presentare le fonti sulla crocifissione romana, risulta fortemente problematico sul piano metodologico e disastroso su quello dell’ortografia al punto che delle molte fonti greche citate, nessuna è esente da vistosi errori di trascrizione. Tra i più curiosi si possono citare κύλον (p.194 per ξύλον, ripetuto in larga parte delle successive citazioni del lessema), σταυροϋν e άνε (p. 227) e ancora il “verbo ἀνεσταυροῦν” (p. 228), ὐντες (nota 415), τριακοσίονς, πρώτονς, ἔμφντον, αὑὐτοῦ, ἐστe (sic, p. 252, mentre si discute di una “equivalenza alle lettere greche JE”), πρὁσδήσας (p. 266), ξύλος (p. 275). Non mancano, infine, traslitterazioni fantasiose (e.g. anastauro’o, p. 195), ed errori di latino (um pro dum, p. 217), il tutto unito a qualche svista tipografica (e.g. il lessema crux scritto talora in italico, talora in tondo).

Il Polidori accenna a problemi “sul piano metodologico” che sarebbe interessante conoscere, visto che non vengono indicati. Le osservazioni sull’ortografia sono motivate, perlomeno limitatamente alla prima edizione del testo dell’opera. Questa è stata prontamente rivista e mandata in stampa già all’inizio di febbraio 2014, vale a dire prima della pubblicazione delle osservazioni critiche del Polidori che, come già sottolineato, non sono aggiornate. Che “nessuna” delle fonti greche citate sia “esente da vistosi errori di trascrizione” è opinione indimostrata del Polidori. Come normale per ogni testo pubblicato in letteratura, gli eventuali errori di copia e trascrizione verranno corretti nelle prossime edizioni.

L’autore, soprattutto, sembra non avere particolar confidenza con la presentazione e l’esegesi di un testo antico. Il risultato è una metodologia di utilizzo delle fonti piuttosto bizzarra che prende come riferimento la datazione dei testimoni manoscritti o la “rilevanza storica” attribuita a seconda che l’autore descriva avvenimenti storici o meno.

La tabella n. 3 alle pagine 211-13 rappresenta effettivamente un nostro contributo originale in quanto non riscontrato in letteratura. Il Polidori sembra sorpreso dall’informazione presente nella sesta colonna, cioè la datazione delle copie manoscritte delle opere, per come ci sono pervenute. Valutare l’antichità e la qualità dei manoscritti disponibili non è però nulla di bizzarro: si veda a questo proposito l’osservazione del Corsani, nella sua “Introduzione al Nuovo Testamento” (1972, Editrice Claudiana) a proposito del testo del NT in confronto con altre opere dell’antichità:

Non è fuori luogo, a questo punto, un rapido confronto con la trasmissione del testo delle opere dell’antichità. L’Iliade di Omero è giunta a noi in due onciali, 188 minuscoli e 457 papiri; però, eccezion fatta per Omero e Virgilio, gli altri scritti dei classici hanno una debolissima attestazione testuale: le Storie di Velleio Patercolo sono pervenute all’epoca moderna in un solo MS, neppure completo (fra l’altro, è anche andato perduto dopo essere stato trascritto nel XVI sec.); i primi sei libri degli Annali di Tacito sono anche pervenuti in un solo MS del IX secolo. Lo stesso può dirsi di molte opere dei primi scrittori cristiani. Un secondo punto di vantaggio del NT è che i suoi MSS datano a un’epoca relativamente molto vicina alla loro data di composizione: salvo le lettere di Paolo, che sono degli anni 50 e 60, gli altri scritti del NT risalgono all’ultimo terzo del I secolo. […] A fronte di questa situazione sta quella dei classici, ove il principale MS delle tragedie di Sofocle a noi pervenuto è stato scritto 1400 anni dopo la morte del poeta; lo stesso vale per Eschilo, Aristofane e Tucidide, mentre la distanza sale a 1600 anni per Euripide, e scende a 1300 e 1200 per Platone e Demostene.

È davvero difficile comprendere il senso del ragionamento del Polidori.

Nella quinta colonna abbiamo valutato la rilevanza storica tramite una semplice classificazione – in sole tre categorie – a seconda che l’autore sia un testimone diretto o indiretto degli avvenimenti che riporta, oppure (ancora) che riporti avvenimenti mai avvenuti, soltanto immaginati. Dovendo stabilire il senso di una parola (stauròs) e anche derivare la specifica procedura di esecuzione capitale romana in base alla descrizione che ne fanno gli autori classici, sembra del tutto ovvio tenere in considerazione il genere letterario e le intenzioni dell’autore del testo, come d’altra parte si fa correntemente anche per i libri dell’AT e del NT.

Così, a puro titolo di esempio, l’Oneirocritica di Artemidoro è destituta da Frattini di ogni utilità poiché non descrive un caso concreto di crocifissione. Sono stranamente omesse alcune fonti fondamentali (come Luciano), e nelle altre emerge il notevole pregiudizio di stampo teologico (i Testimoni di Geova stigmatizzano filosofi e autori pagani come manifestazioni sataniche) con cui le fonti sono affrontate. A proposito di Firmico Materno si leggerà, ad esempio: “il testo in questione è altamente filosofico, non cristiano, e chiaramente influenzato da religioni pagane”. Emblematica di questo metodo complessivo l’affermazione, tra le conclusioni della sezione, secondo cui l’identificazione dello stauròs del NT con una croce a due bracci “sarebbe basata non su fonti propriamente storiche, bensì sulle visioni mistiche dello pseudo Barnaba, di Giustino e, molto più tardi, di Tertulliano, direttamente legate al logos e alla forma del X platonici (sic) oltre che al simbolismo mistico cristiano del loro ambiente” (p. 276).

Il Polidori si sbilancia ancora in un giudizio personale indimostrato, secondo cui l’opera di Artemidoro sarebbe “destituita da Frattini di ogni utilità”, giudizio che non troverete né nel capitolo 6, né in tutto il libro in esame. L’affermazione esatta, riportata a p. 236, è che “l’opera di Artemidoro non è in alcun modo storica né descrive avvenimenti reali o in qualche modo accaduti” e spetta al Polidori l’onere di confutare questo nostro giudizio.

La lamentata omissione di un testo – non meglio specificato – dell’autore Luciano, è ancora una volta indice della superficialità della revisione del Polidori. Si noti che a p. 209, in inizio di paragrafo 6.4 che contiene la tabella n. 3 con l’elenco delle fonti primarie, è chiaramente dichiarato l’ambito, affermando “Questo paragrafo elenca le fonti primarie citate nella letteratura critica verso la TNM.” Ora, nessuno dei testi consultati e citati in bibliografia menziona in alcun modo passi specifici dell’autore Luciano. Quel che però stupisce maggiormente è il fatto che il Polidori, oltre a ignorare le chiare premesse metodologiche del capitolo, pur essendo l’autore di uno dei libri consultati, ha egli stesso omesso di citare il testo (o i testi) di Luciano, la cui assenza ora viene erroneamente contestata. È davvero paradossale lamentare l’assenza di una testimonianza importante che è egli stesso a omettere, in entrambe le edizioni del suo libro, causandone direttamente la lecita estromissione dalle nostre fonti.

Il giudizio che è stato da noi riportato relativamente al carattere filosofico e non cristiano dell’opera – molto tarda – di Firmico Materno, in realtà non è nostro (né appartiene ai Testimoni di Geova, come insinua il Polidori), ma è tratto da una delle nostre molte letture di preparazione a questa ricerca. Per la precisione, Jean Rhys Brahm dell’Hunter College di New York, autore della traduzione dei “Matheseos Libri VIII” di Firmico Materno (edizione del 1975, Noyes Press) scrive quanto segue nella sua prefazione all’opera: “Magic, philosophy, science and theology combine in strange ways in the thinking of the last centuries of the Roman empire. For some time the study of these complexities had been one of my interests. The example of Firmicus Maternus was suggested to me by Professor Larissa Bonfante Warren of New York University” (p. VII). E nell’introduzione all’opera l’autore sottolinea: “Since the astrological work is strongly imbued with pagan philosophical attitudes, we could assume Firmicus was converted to Christianity between the writing of the two works.” (P. 1) Chiarito questo punto, spero sia evidente al lettore che la religione personale di Firmico non arricchisce né sminuisce la sua descrizione, né della procedura romana di esecuzione né della forma dello stauròs: e sinceramente non comprendiamo come potrebbe avvenire, visto che nei testi di questo autore mancano in toto entrambi i riferimenti.  È infine doveroso rimarcare che il giudizio del Polidori sulla conclusione evita di menzionare, per motivi non spiegabili, il risultato più diretto e sostanzioso dell’esame dei testi citati, cioè l’inesistenza praticamente assoluta, nei testi analizzati, di una tecnica di crocifissione tipica “romana”. Le conclusioni sono riportate nel paragrafo 6.6.A che, per quanto innovativo nel panorama delle pubblicazioni in lingua italiana, viene passato sotto silenzio nella revisione. Francamente, questa mancanza è poco comprensibile per una revisione scritta professionalmente, o che come tale viene presentata. Il Polidori rivolge tutta la sua attenzione alla sola seconda parte delle conclusioni generali, probabilmente saltando la lettura dei paragrafi precedenti e attribuendo all’autore il collegamento tra Barnaba, Giustino, Tertulliano, il logos e il X platonici e la mistica religiosa del tempo. A tal riguardo è stato citato il Rahner, come anche il Grigg e il Bousset (p. 244 del nostro libro) autori che probabilmente sono sfuggiti alla revisione poco attenta del Polidori.

Siamo così giunti alla conclusione di questa nostra risposta alla recensione del dott. Polidori, il quale, è bene ricordarlo, ha in più occasioni affermato di aver compilato la prima opera scientifica relativa alla TNM (che si “ispira” ad una sua precedente opera edita nel 2007): un libro che abbiamo preso in esame nel nostro testo mostrandone le gravi lacune: riferimenti bibliografici errati, selezione pregiudizievole delle fonti, struttura del testo evidentemente polemica, giudizi sprezzanti, etc. Ancora, non volendo ripeterci, rimandiamo alla lettura del testo “La Bibbia prima del dogma” per i riferimenti precisi. Venendo però alle competenze degli autori, messe in dubbio dal Polidori, vorremmo richiamare l’attenzione sul recente giudizio espresso da una Commissione super partes che ha preso in esame le pubblicazioni del Polidori stesso, giungendo all’unanimità ad esprimere quanto pubblicato sul sito del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca [grassetto e sottolineature aggiunte]:

Il candidato Valerio Polidori, dottore in Scienze Ecclesiastiche Orientali presso il Pontificio Istituto Orientale, presenta un elenco di 18 pubblicazioni (fra cui 2 recensioni e 3 articoli su quotidiano presentati come articoli su rivista), su temi che spaziano da aspetti della chiesa e della liturgia orientale all’interpretazione della Bibbia da parte dei Testimoni di Geova.

 La Commissione ha esaminato approfonditamente le 12 pubblicazioni con allegato, alla luce dei criteri e dei parametri contenuti nel verbale di insediamento, valutandone la metodologia, l’originalità, la collocazione editoriale, l’impatto scientifico; ha inoltre preso atto degli indicatori numerici (2/3, corrispondenti al superamento delle mediane relative alle monografie e agli articoli su rivista) ed è giunta alla formulazione di un motivato giudizio collegiale. Alla monografia (di taglio scopertamente polemico) sul metodo di traduzione delle Scritture da parte dei Testimoni di Geova (2007, n. 11 nell’elenco delle pubblicazioni allegate) si affiancano interventi, ripetitivi e metodologicamente carenti, dedicati a singoli lezionari italogreci (nn. 3, 7, 8, 9) e altri lavori, in parte di assai breve respiro, su temi di filologia, liturgia ed ermeneutica biblica.

Considerata nella sua totalità, la produzione scientifica del candidato, complessivamente esile e metodologicamente incerta, non soddisfa i criteri fissati dalla Commissione per la formulazione di una valutazione positiva. Il giudizio è confermato dalla scarsità dei titoli valutabili, anch’essi inferiori ai parametri minimi definiti dalla Commissione.

Alla luce degli elementi evidenziati, la Commissione, come risulta dal verbale del 25.11.2013, delibera all’unanimità di non attribuire al candidato l’abilitazione scientifica nazionale alle funzioni di professore di II fascia nel settore concorsuale 11/A4.

Fonteabilitazione.miur.it/public/pubblicarisultati.php

Link diretto (pp. 379-380)

Il dott. Polidori ci permetta un consiglio: invece di dedicare tutto questo tempo per scrivere improbabili recensioni a testi che – alla luce dei fatti – sembra avere difficoltà a comprendere, o a spendere tempo per scrivere opere “di taglio scopertamente polemico”, dovrebbe indirizzare i suoi sforzi al fine di migliorare i suoi “interventi” che, presi complessivamente in esame da una Commissione competente, risultano “ripetitivi e metodologicamente carenti”.

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