La Disputa Iconoclasta – indagini sulle ragioni

A causa del divieto di riprodurre immagini ereditato dall’Antico Testamento e del pericolo di idolatria diffusa nel mondo pagano, nelle comunità cristiane sub-apostoliche fino alla Chiesa del terzo secolo dominò un certo “silenzio” iconografico. Fu all’inizio del quarto secolo che iniziarono a sorgere i primi sintomi di quella che sarebbe diventata una fra le più aspre dispute in seno alla cristianità. Eusebio di Cesarea, per esempio, indicando l’abitudine di alcuni a custodire immagini portatili di Cristo e degli apostoli, non esitava ad identificarvi il persistere di usi e costumi pagani; Basilio di Cesarea predicava, di contro, il valore didascalico delle icone nella convinzione che la pittura fosse “per gli occhi ciò che la parola era per gli orecchi”. Chi sposava il pensiero di Basilio sosteneva che tramite l’icona fosse possibile elevarsi alla contemplazione del prototipo; per costoro, l’icona non era sinonimo di idolo.

Non è difficile credere come, inizialmente, le opere d’arte si insinuarono nella teologia senza sfidare le realtà e i valori spirituali, senza cioè la pretesa di fare del visibile una via di accesso all’invisibile. Ma la confusione non si fece attendere molto. Fu una diffusa incapacità di pervenire al divino senza una qualche intermediazione che portò quasi subito a confondere questi piani. Le immagini si rivestirono di quella decisiva e peculiare funzione anagogica che ancora oggi urta la sensibilità religiosa di molte confessioni cristiane minori.

In pratica, col passare del tempo, i fedeli iniziarono ad avvertire non soltanto una certa continuità tra il dipinto e il suo prototipo, ma si arrivò a pensare che la persona in esso rappresentata vi fosse realmente presente. Lo stesso materiale con cui tale raffigurazione era eseguita veniva percepito come compartecipe della santità di chi era rappresentato, quasi che l’icona e il santo fossero ontologicamente uno, tanto che a volte si raschiavano i colori dell’immagine sacra per diluirli in bevande al fine di ottenerne pozioni con cui guarire i malati. In virtù di tali convinzioni, un’icona poteva essere addirittura scelta come padrino per un neonato al momento del battesimo o, assurgendo a funzione di stendardo, essere elevata a difesa di città e di eserciti. Nella vita di tutti i giorni, le immagini si trasformarono in amuleti e oggetti apotropaici.

Questa degenerazione religiosa diede origine a dispute e contese teologiche destinate ad alimentare forme di repressione e di scontri fra gli iconoduli e gli iconoclasti. Fu soprattutto dall’ottavo secolo che la contesa divampò in Oriente quando Leone III, nel 726, ordinò di rimuovere la venerata icona del Cristo affissa alla Chalkè, la grande porta bronzea che collegava il palazzo imperiale alla città di Costantinopoli. L’immagine venne sostituita con una croce, sotto la quale l’imperatore fece collocare l’iscrizione: “Poiché Dio non sopporta che di Cristo venga dato un ritratto privo di parola e di vita e fatto di quella materia corruttibile che la Scrittura disprezza, Leone con il figlio, il nuovo Costantino, ha inciso sulle porte del palazzo il segno della croce, gloria dei fedeli”. Questo episodio segnò di fatto l’inizio dell’iconoclastia.

GLI SVILUPPI

Quattro anni dopo, l’iconografia sacra ormai assimilata all’idolatria, fu formalmente vietata con un editto nel quale l’imperatore ordinava di distruggere tutte quelle icone in cui la divinità fosse rappresentata in modo figurato e non per mezzo di simboli. La corte di Carlo Magno, in Occidente, non rimase estranea alla contesa. Al concilio di Francoforte nel 794, a differenza della corte bizantina, essa assunse un preciso equilibrio teologico fra le concezioni estreme dell’iconodulìa e quelle dell’iconoclastia: le immagini non dovevano essere distrutte, ma nessun culto si doveva ad esse prestare.
Costantino V, successore di Leone III, si impegnò in una più determinata lotta contro il culto delle immagini. Proseguì la politica di Leone III con maggior rigore; condannò ogni forma di iconodulìa e diede inizio ad una sistematica iconoclastia, che si protrasse sotto Leone IV, perseguendo coloro che si rifiutarono di aderire all’iconoclasmo. Costantino V provava repulsione verso tutte le forme di raffigurazione sacra ritenendole inadeguate a esprimere la radicale trascendenza del divino. Egli volle così che l’iconoclastia non fosse un semplice provvedimento imperiale di natura disciplinare, ma che si configurasse come la restaurazione, sostenuta dalla Chiesa, della retta dottrina. Fu così che convocò nel 754, a Hiereia, un concilio che egli avrebbe voluto ecumenico ma che fu disertato dai rappresentanti degli altri patriarcati orientali e dai delegati papali. Dopo circa sei mesi di lavori, i 338 vescovi adunatisi condannarono chi cercava di raffigurare con colori l’essenza e la sussistenza del Logos divino.

LE DISPUTE TEOLOGICHE

La riflessione teologica sviluppò un’iconologia di fortissimo impegno speculativo. Argomento centrale della discussione non fu più il controllo dell’immagine o il significato che essa rivestiva per il fedele bensì il suo stesso statuto in relazione al tema dell’incarnazione, e cioè alla possibilità di creare un corrispettivo iconografico in grado di esprimere correttamente i princìpi della dottrina cristiana e in primo luogo le definizioni teologiche relative alla seconda persona della Trinità.

O l’icona pretendeva di rappresentare nella sua compiutezza e totalmente il ritratto di Cristo, ciò che appariva assurdo essendo la divinità inafferrabile e indescrivibile, oppure essa mostrava la sola natura umana di Cristo e non la sua divinità. In tal caso si cadeva nel nestorianesimo, separando arbitrariamente l’unità inseparabile delle due nature quale era stata definita dall’ortodossia conciliare di Nicea e di Calcedonia.

Il carattere teologicamente trinitario e cristologico della controversia sulle immagini era evidenziato dalle accuse degli iconoduli agli iconoclasti, di avversare la rappresentazione sensibile delle manifestazioni del sacro nel timore che essa compromettesse la trascendenza divina: un’avversione che avrebbe dimostrato, secondo gli iconoduli, scarso rispetto per la visibile incarnazione del Figlio.

Gli iconoduli, però, non si limitarono a controbattere le accuse di eresie a loro rivolte sin dai tempi di Hiereia, ma imputarono agli iconoclasti di non comprendere con sufficiente chiarezza che nell’icona di Cristo si rappresentava non la divinità e al contempo l’umanità del Salvatore, e nemmeno la sua sola umanità, bensì la sua ipostasi contraddistinta sì da un ineffabile mistero ma nondimeno descrivibile da quando Dio, incarnandosi, si era reso umanamente visibile assumendo un aspetto.

IL TRIONFO DELL’ICONODULIA

Leone IV (775-780), succeduto a Costantino V, non fu certamente più tollerante verso l’iconodulìa, soprattutto alla fine del suo regno quando iniziò vere e proprie persecuzioni contro quelli che non erano d’accordo con l’iconoclastia.

Alla sua morte, la moglie Irene assunse la reggenza in nome del figlio minorenne Costantino VI. Sotto l’impulso degli ambienti monastici integralisti e incoraggiata da quei funzionari civili ed ecclesiastici allontanatisi dall’iconoclasmo in seguito agli eccessi di Costantino V, l’imperatrice che proveniva dalla regione greca tradizionalmente favorevole al culto delle immagini, provvide a far eleggere un nuovo patriarca, il quale si impegnò a convocare un concilio per abolire i provvedimenti adottati a Hiereia. Il concilio, il settimo nell’ordine e l’ultimo riconosciuto ecumenico dall’intera cristianità, fu convocato il settembre del 787 a Nicea. Nella consapevolezza che l’onore reso all’immagine risaliva al suo modello, venne istituzionalizzata la liceità di “tributare a esse baci e devota venerazione”.

In questo consiglio si confermo la volontà di “custodire gelosamente intatte tutte le tradizioni ecclesiastiche, sia scritte che orali. Una di queste, in accordo con la predicazione evangelica, è la pittura delle immagini, che giova senz’altro a confermare la vera e non fantastica incarnazione del Verbo di Dio, e ha una simile utilità per noi, infatti le cose che hanno fra loro un rapporto di somiglianza, hanno anche senza dubbio un rapporto scambievole di significato”.
In merito alle accuse rivolte agli iconoduli si affermò che “Non si tratta certo, secondo la nostra fede, di un vero culto di latria, che è riservato solo alla natura divina, ma di un culto simile a quello che si rende alla immagine della preziosa e vivificante croce, ai santi evangeli e agli altri oggetti sacri, onorandoli con l’offerta di incenso e di lumi, com’era uso presso gli antichi. L’onore reso all’immagine, infatti, passa a colui che essa rappresenta; e chi adora l’immagine, adora la sostanza di chi in essa è riprodotto”. Tali dichiarazioni furono suggellate da quattro anatemi rivolti contro chiunque non le condividesse:

– Se qualcuno non ammette che Cristo, nostro Dio, possa esser limitato secondo l’umanità, sia anatema.
– Se qualcuno rifiuta che i racconti evangelici siano rappresentati con disegni, sia anatema.
– Se qualcuno non saluta queste immagini, fatte nel nome del Signore e dei suoi santi, sia anatema.
– Se qualcuno rigetta ogni tradizione ecclesiastica, sia scritta che non scritta, sia anatema

Ma la situazione era ancora troppo instabile. Di fronte alla rinnovata offensiva bulgara, i cui eserciti accampatisi alla periferia di Costantinopoli minacciavano la capitale stessa, sembrava naturale richiamarsi alle virtù militari e alle positive capacità amministrative di Leone III. I sostenitori dell’iconoclastia traevano rinnovato vigore argomentando che le ricorrenti sconfitte erano interpretabili quale segno evidente dell’abbandono di Dio verso i sovrani idolatri e indegni. Durante l’assedio bulgaro dell’811-812 si diffuse tra la popolazione la credenza secondo cui Costantino V sarebbe riapparso per mettere in fuga i nemici. Non stupisce che Leone V (813-820), salito al potere grazie ad una rivolta militare, subito dopo aver rinsaldato le redini dell’impero, abbia potuto nell’815 ripristinare ufficialmente l’iconoclasmo, seppur in forma meno intransigente. Ma in questa situazione altalenante, il discredito patito dagli ultimi sovrani iconoclasti (Michele II e Teofilo) per non aver saputo fronteggiare le aggressioni bulgare nei Balcani, condusse quasi inevitabilmente ad una nuova positiva conferma all’iconodulìa.

L’11 marzo dell’843 un sinodo convocato a Costantinopoli proclamava, in conformità alle delibere del secondo concilio di Nicea, la solenne restaurazione del culto delle immagini. L’icona diveniva la dimostrazione tangibile dell’incarnazione a cui ormai era indissolubilmente legata. Come già espressamente riconosciuto dal secondo concilio di Nicea, una volta per tutte, fu “dimostrato che le immagini dei santi fanno miracoli e compiono guarigioni”. (Mansi, XIII, col. 60c)

CONCLUSIONE

Andati perduti gli scritti degli iconoclasti, l’argomentare di Leone III e dei suoi sostenitori può essere ricostruito solo attraverso i trattati dei loro oppositori, e questo non può che essere fonte di incertezze interpretative. Si è talvolta interpretato il movimento iconoclasta come l’esito della potente influenza sul mondo bizantino della religiosità islamica e, in subordine, della tradizione ebraica, entrambe avverse alla rappresentazione della divinità in qualunque forma; difatti non si può ignorare che le misure iconoclaste di Leone III seguirono di pochi anni l’editto del califfo Jadiz II, che ordinava la distruzione delle immagini in tutte le province cristiane da lui conquistate. Si è cioè ritenuto che gli imperatori iconoclasti di origine armena impegnati sul fronte asiatico in un aspro confronto religioso-militare con i musulmani, avessero essi stessi assorbito le concezioni aniconiche dell’islamismo o che almeno si fossero preoccupati di assecondare le tendenze iconoclastiche radicate tra quei corpi d’armata dell’Asia minore, o che in ultimo il continuo contatto con la mentalità aniconica musulmana avesse indotto a interpretare la venerazione delle immagini quale residuo di idolatria pagana. Ogniqualvolta poi che gli scontri con gli Arabi risultavano a favore del fronte cristiano, tali vittorie venivano interpretate come ricompensa di un Dio non più offeso da pratiche idolatriche.

E’ altrettanto certa l’esistenza presso alcune élite ecclesiastiche bizantine di un’estesa disposizione aniconica di matrice genuinamente e spontaneamente cristiana. Alcuni lo considerano un movimento tutto interno alla religiosità ortodossa originato da un sincero intento di placare la collera divina manifestatasi nelle catastrofi militari che avevano preceduto il regno di Leone III o in terribili calamità naturali quale l’eruzione vulcanica di Thera nel 726. Tali disastri avrebbero orientato Leone III in senso iconoclasta, determinandolo a purificare la Chiesa dalle degenerazioni superstiziose connesse al culto delle icone, in direzione di una più radicale affermazione della trascendenza divina. Qualsiasi fosse il movente, gli imperatori iconoclasti non erano stati né degli infedeli né dei razionalisti.

Le loro azioni attinsero forza dalle parole che, in un’occasione, Leone III indirizzò a Papa Gregorio II: “Io sono imperatore e sacerdote”; forti di una simile e sincera convinzione, essi avevano creduto di purificare la tradizione cristiana da quelle sopravvivenze pagane che, a dir loro, condannavano i cristiani al disfavore divino.

fonte: InStoria

Riferimenti bibliografici:

Filoramo-Menozzi, Storia del cristianesimo, Il medioevo, Laterza, Roma, 2001
E. Buonaiuti, Storia del cristianesimo, Newton&Compton, Roma, 2002