In principio … creò il cielo e la terra

Omnia adversus veritatem de ipsa veritate constructa sunt.[1] Queste sono le parole con le quali, alla fine del II secolo,  l’apologeta Tertulliano descrisse magistralmente chi attingendo dalle “Sacre Scritture” alcune informazioni, poi le riorganizzava snaturandone il significato e presentandole in maniera da avvalorare insegnamenti lontani da quelli che in verità veicolava, e veicola, il testo biblico.

Si tratta di un modus operandi noto sin dall’alba del cristianesimo, a partire dall’eretico Marcione[2] sino ad arrivare ai giorni nostri con il sig. Mauro Biglino[3] il quale, attraverso un’indiscutibile arte oratoria, offre lezioni che mettono in dubbio la traduzione e l’esegesi dei manoscritti biblici, così come presentate dall’ecumene accademica, arrivando ad insinuare, nemmeno tanto velatamente, l’accusa di una certa malafede da parte di teologi e religiosi che non insegnerebbero la verità su Dio e sulla storia “sacra”. È quantomeno curioso come sia lo stesso Biglino ad affermare che “dell’Antico Testamento se ne devono occupare scienziati, storici, archeologi, filologi, linguisti, sociologi, psicologi, antropologi, [ma] di quel libro non se ne devono occupare i teologi”[4] per la ragione poc’anzi esposta[5]. Decisamente curioso. Visto che lo stesso Biglino non riveste nessuna delle figure da lui stesso elencate (non possedendo alcun titolo accademico), si potrebbero archiviare le sue affermazioni senza degnarle di alcuna seria considerazione, cosa che peraltro fa la quasi totalità degli studiosi. Se però questo “silenzio” viene usato per avvalorare le sue tesi, ritengo personalmente necessario romperlo per rispondere ad alcune domande formulate da persone sinceramente interessate all’argomento.

È vero che nella Bibbia non esiste il termine che indica Dio[6] e che il corrispondente ebraico Elohim è da leggersi come plurale rivolto ad esseri alieni che visitarono il nostro pianeta nel lontano passato?

A fronte di un linguaggio moderno composto mediamente da 250/300.000 parole, l’ebraico biblico conta meno di 9.000 termini soltanto. È chiara quindi l’importanza che assume il contesto per determinare esattamente ciò di cui l’agiografo scrive. Non a caso, fra i principali “pericoli” verso cui vengono allertati gli studenti che affrontano scienze della traduzione in campo biblico, ci sono:

  • il pericolo che deriva dall’ignorare il contesto
  • il pericolo di confondere i concetti con le parole che ad essi si riferiscono
  • il pericolo dell’etimologizzazione
  • il pericolo di confondere la struttura della lingua con la struttura del pensiero

  Errori che ritrovo costantemente nelle esposizioni di Biglino. 

È noto che il sostantivo Elohim viene usato nella Bibbia per indicare Dio, gli angeli o persino degli uomini.  È il contesto e il costrutto della frase a guidare la lettura. Il suffisso “im” indica il plurale maschile, ma in ebraico esiste il “plurale di intensità” o di “astrazione”, che ha valenza singolare. Per determinare se una parola è un plurale o un singolare si deve guardare tutta la frase, e in particolare i verbi. Se il verbo è singolare, allora il plurale assume valenza singolare.  Prendiamo ad esempio il primo versetto del libro della Genesi:

L’ebraico si legge da destra verso sinistra. In traslitterazione semplificata abbiamo: “bereshit bara Elohim et hashamaim veet haarets”, tradotto con “in principio Dio creò i cieli e la terra”. Il verbo (bara) è al singolare e quindi Dio (Elohim) è da intendersi al singolare. Se Elohim fosse stato plurale (leggendo quindi “Dei”) avremmo avuto la corrispondente forma verbale plurale baru e non bara.

È vero che nella Bibbia non esiste il termine che indica “eternità”? [7]

È senza dubbio vero che nell’ebraico biblico (6.974 parole, nomi esclusi) il verbale narrativo prevale sul concettuale astratto. Ma non avere una parola specifica per identificare un concetto astratto non significa che tale concetto non esistesse del tutto, come lascia ingenuamente credere Biglino. Per esempio, confrontiamo quanto scritto in Esodo 3,15:

Traslitterato in “zeh shemi leolam, vezeh zichri ledor dor” e tradotto con “questo è il mio nome per sempre e il mio memoriale di generazione in generazione”.

Attraverso uno dei numerosi parallelismi sinonimici di cui è caratterizzato il costrutto ebraico, l’autore sta esprimendo il concetto di “eternità” con l’uso della parola olam (che di per sé si riferisce ad un punto nel tempo futuro determinato dalla natura del soggetto – confronta anche Salmi 89,38) poi rafforzata dall’espressione dor dor “di generazione in generazione”.

È vero che nella Bibbia ebraica non esiste il verbo “creare”? [8]

Riprendo l’esempio già citato di Genesi 1,1. La radice trilittera del verbo ebraico “creare”, etimologicamente incerta, potrebbe derivare dal termine “costruire”, “scolpire”, “tagliare” o “dividere”[9]. Anche in questo caso Biglino, ignorando(?) lo sfondo pragmatico della lingua semitica, sembra cadere nell’errore dell’etimologizzazione menzionato in precedenza. 

Un termine, qualunque esso sia, ha valore non in forza del suo etimo ma unicamente per il suo uso; nella Bibbia Dio è sempre il soggetto di questo verbo, e si tratta sempre del Dio di Israele, del Dio Echad, mai di una divinità straniera, tantomeno mai di un uomo. Questa azione creatrice fa sempre sorgere qualcosa di nuovo, qualcosa che prima non c’era (fisicamente o metaforicamente, a seconda del contesto). Dire che “non esiste il verbo creare” facendo credere che gli ebrei ne ignorassero il concetto e non avessero termini per esprimerlo, non corrisponde alla realtà dei fatti. Si potrebbe continuare ancora a lungo, rispondendo a numerose altre affermazioni di Biglino che non trovano alcun fondamento, ma credo che quanto sopra possa essere sufficiente per comprendere il valore argomentativo di queste nuove, ma vecchie, mode esegetiche.

Chiunque voglia affrontare seriamente un lavoro di traduzione deve tenere presente che non è solo la lingua a separarci dal messaggio contenuto nei testi biblici, ma anche un enorme divario culturale: da arcaici contesti sociali del tutto sconosciuti al nostro quotidiano, a idiomi non più familiari e con una costruzione del pensiero estranea ai nostri schemi mentali. Non basta prendere un dizionario e collaborare alla pubblicazione di un paio di traduzioni interlineari (lavoro meccanico che prevede di inserire la corrispettiva voce sotto ogni parola ebraica) per dipingersi quali fini traduttori; per usare le parole di Biglino, lasciamo che siano gli “storici, archeologi, filologi, linguisti” a occuparsene, e se proprio vogliamo credere al “cantastorie” di turno, liberi di farlo purché non si accusi di malafede il lavoro di tutti gli altri biblisti.

fonte

[1] Apologeticum 47,11

[2] http://www.treccani.it/enciclopedia/marcione_(Enciclopedia-Italiana)/

[3] https://it.wikipedia.org/wiki/Mauro_Biglino

[4] https://youtu.be/cvmvpMogmt8, minuto 6:06

[5] ibidem, minuto 8:48

[6] ibidem, minuto 6:40

[7] ibidem, minuto 6:51

[8] ibidem, minuto 6:42

[9] confronta GLAT e DTAT, ad vocem