La Bibbia prima del dogma – recensione di Didier Fontaine

 

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Quest’opera apparsa a fine 2013 interesserà tutte le persone attratte dai problemi di traduzione della Bibbia. Il titolo evoca volutamente quello di un’opera di M.-E. Boismard, All’alba del cristianesimo, prima della nascita dei dogmi (1998) – cosa, per me, piuttosto piacevole. Quanto al sottotitolo, indica la Traduzione del Nuovo Mondo (d’ora in avanti TNM) come ermeneutica della traduzione biblica. Il progetto è dunque molto ambizioso, visto che la TNM è stata oggetto di contestazioni, di pamphlet e di altre critiche. Raramente si sono levate voci a denunciare le approssimazioni di queste critiche, mi piace menzionare quelle di R. Furuli e G. Stafford.

Questo tentativo cerca di colmare una lacuna. Gli autori sono F. Arduini e S. Pizzorni rispettivamente studente laureato in teologia e professore di lettere. Il primo ha già pubblicato un’opera sul battesimo degli infanti (2010), mentre il secondo traduce regolarmente opere teologiche in lingua italiana, scrivendone anche la prefazione. Menzioniamo anche che il capitolo 6 è opera del Dr. Simone Frattini.

L’opera è scritta in modo semplice, sebbene sia di livello accademico. Il tono è neutrale e gli argomenti trattati sono volontariamente limitati: piuttosto che rispondere esaustivamente alle critiche abituali si vuole illustrare la fondatezza di un certo numero di scelte rappresentative della TNM.

La prefazione (pp. 7-9) redatta del Dr. E. Foster ricorda le difficoltà legate a tutti i progetti di traduzione, tanto per il livello delle competenze indispensabili ai traduttori che per la necessaria articolazione dei dati linguistici, filologici e teologici. I vecchi dibattiti sull’interferenza tra questi diversi approcci ai testi vengono saltati a piè pari in quanto sono a giusto titolo sottintesi.

L’Introduzione (pp. 10-23) menziona i pericoli di tutti i progetti di traduzione biblica: traduzione/tradimento, traduzione/tradizione. L’interpretazione é intrinseca al progetto e solamente avendo una buona conoscenza delle discipline bibliche (lingue bibliche, linguistica, critica testuale, storia, ecc.) si può sperare di arrivare ad una « buona » traduzione (p. 16). Viene data qualche indicazione sulle problematiche fondamentali della disciplina: traduzione dinamica/traduzione formale. Gli esempi prescelti (Romani 3.28 e Genesi 1.20) attestano una certa preferenza per il secondo approccio. A questo punto viene introdotta la TNM, ben conosciuta per il suo approccio letterale (che qui va oltre, a mio avviso, rispetto alla traduzione formale in senso stretto). Gli autori si propongono di esaminare oggettivamente se la TNM può onestamente essere davvero definita una traduzione scorretta, e stabilire se i traduttori hanno compiuto un lavoro da teologi piuttosto che da attenti filologi (p. 23).

Il capitolo 1 (pp. 23-43) fa un riassunto delle caratteristiche tecniche della traduzione (edizioni utilizzate per i testi originali, aneddoti storici come la prima edizione del P. Fouad 266, ecc.). La lista delle abbreviazioni delle fonti utilizzate (pp. 27-32) ricorda che la TNM vanta quasi 11.000 note e 125.000 riferimenti incrociate, disponendo in effetti di un apparato estremamente ricco, spesso orientato 1. ai testimoni del testo e 2. spesso, alle scelte operate dai traduttori e alle alternative possibili. Le scelte della TNM sono peraltro ben note: 1. Uso del nome divino (AT e NT) 2. Equivalenza formale, 3. Sitz im Leben,4. Varianti segnalate in grassetto e 5. Resa delle forme verbali (p. 37). Personalmente userei più cautela sul punto 3. Ogni traduttore deve necessariamente render conto, in qualche modo, del substrato storico e dell’ambito d’origine del documento che viene tradotto. È difficile riconoscere a priori un criterio che sarebbe proprio o caratteristico della TNM. Gli autori esplicitano un po’ meglio (p. 41) quello che intendono: la cura mostrata dalla TNM a non sviare il suo lettore su concetti estranei al testo (come le trascrizioni Shéol e Hadès piuttosto che le traduzioni/adattamenti poco appropriate tipo «inferno»). Notiamo tuttavia che la NWT 2013 ha parzialmente abbandonato questa pratica (ad es. per Shéol, Genesi 37.35, Hadès, Matteo 11.23, ma non Tartaro, 2 Pietro 2.4).

Il capitolo 2 (pp. 45-93) affronta il problema della presenza del nome divino nel Nuovo Testamento, non tanto per stabilire la sua presenza o assenza quanto per determinare se la scelta della TMN d’inserirlo 237 volte nelle scritture greche-cristiane è «plausibile e coerente» alla luce dei criteri del suo comitato di traduzione, laddove tale scelta viene molto spesso qualificata come un «emendamento congetturale» (p. 46). Gli autori osservano immediatamente che la grande maggioranza delle versioni italiane emendano esse stesse il testo dell’AT sulla base d’una congettura ben nota: il nome proprio YHWH è reso con «Signore». Si ritiene di poter procedere a questa scelta per delle ragioni «filologiche, storiche e teologiche» (p. 47). Una di queste ragioni è la presunzione che la LXX rendesse il tetragramma con κύριος, ma questa supposizione diventa problematica alla prova dei fatti (pp. 49-64) – che siano le testimonianze antiche, o le scoperte papirologiche recenti.

L’esposizione è ben impostata e ben strutturata. Non sto a ripeterne i punti essenziali poiché ho già scritto molto su questo argomento (si veda Fontaine 2007, 2009, 2012 ; il secondo riferimento è citato a pp. 58, 67 e 289). Gli autori collocano la sostituzione verso il II/III sec. (p. 58). Evocano il «cambio di paradigma» (p. 58) che avevo anch’io tentato di mettere in luce (sostituzione dovuta all’influenza della filosofia ellenistica, all’anti giudaismo crescente, l’apparire dei nomina sacra, la divinizzazione del Cristo, ecc.). I riferimenti sono relegati nelle note (al contrario della mia opera che forse cita troppo le fonti antiche) e rendono la dimostrazione molto semplice da comprendere. Dopo aver trattato del Nome nella LXX, gli autori trattano logicamente la sua eventuale originale presenza nel NT, sottolineando che non ci sarebbe nulla di stupefacente se i primi cristiani avessero seguito la pratica giudaica. A questo punto ci dispiace che gli autori non abbiano affrontato le seguenti obiezioni:

  1. Quando sono apparsi i nomina sacra e presso quale comunità?

  2. I cristiani si sono radicalmente innovati e hanno creato una propria “cultura visiva” (L. Hurtado)?

L’adozione del codice, l’elaborazione di un canone, la reazione contro le eresie gnostiche, docetistiche o marcionite, la vivacità apologetica, dimostra che si imposero delle scelte molto precocemente. Nel contesto che conosciamo (e che gli autori descrivono correttamente) non sarebbe strano che si fosse presa la decisione di promuovere l’universalità, e dunque l’adozione di «Signore». Già nelle pagine del NT si subodora la tensione tra le comunità degli ellenisti e degli ebrei. Le guerre giudaiche (66-70, 115-117, 135 d.C.) incoraggiarono i cristiani a pensare che l’Israele «secondo la carne» era stato rigettato, e che un nuovo Israele, «spirituale» e «cattolico» (universale) era nato. Per di più, seppure in seguito sarà esagerata ed anche snaturata, la centralità di Gesù e la sua divinità sono attestate chiaramente nel NT (Filippesi 2.6, 1 Giovanni 5.1, Giovanni 1.1, 20.28). In testi come Romani 10.13 Paolo parla di Gesù e riprendendo delle citazioni dell’AT per dargli un senso nuovo, un terreno nuovo. Questo non identifica Gesù con Dio, né sostiene la divinità in senso niceno. Ma io credo che sia necessario tener conto di questa esegesi particolare delle Scritture, soprattutto da parte di Paolo, per immaginare quel trattamento sia stato riservato ad un nome proprio ebraico. Si possono citare alcuni passi degli Atti per capire il metodo molto differente con cui egli si approccia a un pubblico composto da giudei o da greci. A p. 66 si relega in nota un altro punto cruciale: i papiri anteriori al 200 d.C.. Certo, come avevo io stesso spiegato, questi non forniscono alcuna indicazione sul trattamento del nome divino, ma la loro analisi si dimostra comunque necessaria. Essi possono fornire preziose indicazioni sul quando, ed è il quando che cambia tutto! Su questo soggetto si possono esaminare il mio studio sul p52 e i lavori (in corso di pubblicazione) di A. Meyer.

Gli altri indizi della presenza originale del Nome nel NT sono ricordati (libri dei minim, varianti, distinzione tra i due signori nella versione siriaca). L’ipotesi seducente che i nomina sacra avrebbero avuto primariamente lo scopo di distinguere il tetragramma è affrontata (pp. 68-69) ma a mio parere non sufficientemente documentata (cf. nota 124 p. 69). Dopo questa panoramica gli autori concludono che non c’è alcuna ragione per credere che i giudeocristiani abbiano derogato alla pratica scribale giudaica di utilizzare il nome divino. Io stesso ho difeso questa posizione, ma a questo punto direi: si, ma… manca ancora un minuzioso esame dell’emergenza dei nomina sacra per aderire completamente alla tesi, da una lato come dall’altro (e non sto parlando di prove, ma di un’intima convinzione). Tuttavia gli autori sono giustificati quando sostengono che la TNM non ha fatto una scelta “irrazionale”. Come io stesso avevo sottolineato, non senza ironia, sopprimere il Nome dall’Antico Testamento impedisce la sorpresa di constatare la sua assenza nel Nuovo. Alcuni diranno che ciò priva di un’affermazione forte. Forse, ma allora restauriamo il Nome nell’AT. Il nome proprio.

Nella sezione “Gesù come κύριος nel NT” (p. 73 e seguenti) sono analizzati diversi versetti (come 1 Corinti 8.6) oltre che le tesi di Bousset vs Hurtado. Contrariamente a certe affermazioni che si fanno troppo spesso, gli autori affermano che Paolo distingue chiaramente Gesù da Dio (θεός si riferisce quasi esclusivamente a Dio e κύριος di preferenza a Gesù, tranne per le citazioni dell’AT ; cf. pp. 76-77). Filippesi 2.5-11 viene esaminato per mostrare che il trasferimento di autorità da YHWH a Gesù non ha fatto di quest’ultimo un oggetto di culto, o di monoteismo binitario come vorrebbe Hutado (p. 80). D. Boyarin (di cui si sa tutto il bene che penso) è citato alle pp. 80-81 per provare che all’epoca si conoscevano delle figure divine, senza confusione tra l’identità “funzionale” e “ontologica”. Ma io ho letto attentamente Boyarin e quest’ultimo sostiene che effettivamente si attendeva il Figlio dell’Uomo, il Messia divino, presentato come una seconda figura divina (in effetti Boyarin crede di avere, unico al mondo, scoperto il “giudaismo binitario”…). Per tale motivo non seguo Arduni e Pizzorni né su questo punto (e questo nonostante la loro magistrale analisi dei mediatori divini a pagina p. 138 e ss.) né sull’analisi troppo succinta dell’inno di Filippesi 2.5-11. Certo, il v. 11 indica che l’esaltazione del Cristo è alla gloria del Padre. Ma l’inno culmina al v. 10 con l’affermazione della signoria di Cristo. Questa signoria mi sembra un po’ attenuata. Si cita Dunn (p. 81) con cui si può essere d’accordo, poiché in sostanza dice che è il Padre che glorifica il Figlio. E questo è un concetto che non si deve mai dimenticare. Ma nei fatti si va più lontano: il Padre gioisce della glorificazione del Figlio. Non si devono dunque bruciare le tappe, saltando a piè pari dal Figlio al Padre, trascurando il Figlio. Altrimenti, si comprenderebbe bene il Padre? Qui al centro è decisamente il Figlio. Mettere la citazione di Romani 14.11 in nota non sembra d’altronde una scelta molto felice, poiché prova che le citazioni paoline sono ben più complesse di quanto viene suggerito (lo stesso passo di Isaia 45.23 compare in Filippesi 2.5-11 e Romani 14.11 con delle applicazioni del tutto differenti). Gli autori tentano di renderne conto appellandosi ad un fatto conosciuto ma poco utilizzato: i mediatori e gli agenti divini nell’AT e nella letteratura giudaica (p. 83). Questi agenti, alcuni dei quali portavano il nome divino, erano considerati come Dio, per quanto concerne la loro funzione. Senza essere Dio, naturalmente. Ma anche qui, sebbene non trovo nulla da obiettare, penso che vi sia il forte rischio di semplificare: questi agenti erano proprio considerati come Dio. Poteva crearsi confusione, e in effetti ci fu confusione (cf. Esodo 33.14 e il mio מַלְאַךְפָּנָיו= L’ange de sa face ? ; richiamato a p. 135). Ma nel NT non c’è alcuna confusione. Il Signore Gesù è chiaramente distinto dal Signore Dio. Come spiegare allora affermazioni come «chiunque invoca il nome del Signore» (Romani 10.13; Atti 2.21) in contesti dove è indicato Gesù? Che Geova sia glorificato, certo. Ma Gesù? Quale altro nome salva ? Nessun altro (Atti 4.12). Non si parla, pertanto, di Geova per mezzo di Gesù, ma proprio di Gesù. E’ in questo che la nozione di mediatore è equivalente ma senza essere sovrapponibile: trasferimento di autorità, di competenze, certo, ma ruolo di pulcinella, questo no. D’altronde, come dimostra Boyarin (malgrado tutto!) non è possibile paragonare né l’angelo di Geova, né Metatron, né Yahoel, con il Figlio dell’Uomo. Il Figlio non è una figura divina, è la (seconda) figura divina (e non sto parlando della Trinità). Ecco perché considero l’esame di Filippesi 2.5-11 insufficiente. Evitando di spingersi sul terreno della filologia (qui in particolare μορφῇθεοῦ avrebbe fornito la soluzione) gli autori limitano la loro prospettiva. Poiché μορφῇθεοῦ dice più che «un essere angelico» (p. 80). Per farla breve, Gesù non è un «essere spirituale». E’ lui stesso di natura divina. O, anche se il testo indica una parentela prossima tra i due segmenti, «essere spirituale» ≠ «essere divino». Stessa sfera. Natura differente. Questo non identifica Gesù con Dio !

Non è dunque sufficiente dire che le citazioni paoline si spiegano con il fatto che Gesù agisse «nel nome di» Geova, forse associato a testi che inizialmente riguardano Geova. C’ho impiegato molto tempo a convincermene: Paolo è più sottile. La prova più sicura di questo può essere dedotta paradossalmente: mai gli «agenti divini» furono oggetto di confusione come nel caso di Gesù. Il caso di Gesù è dunque particolare. Difendere la 237 ricorrenze del Nome nel NT è un compito arduo. Io lo so perché ci ho provato. Ma è troppo (cf. . Fontaine 2007 : 307-315). A p. 89 gli autori trattano succintamente 1 Pietro 2:3 e 3:15 concedendo che le allusioni all’AT sono « adattate » in modo da sconfinare nell’arbitrarietà (p. 89). Eh, no. E’ la prova che un esame ragionato di questo tipo di allusioni è difettosa. Io la risolverei (scandalosamente?) in poche parole: certi autori del Nuovo Testamento forse non hanno mai usato il Nome nei loro scritti (Fontaine 2007 : 302, 306, 2009 : 298). Eh si.

Il capitolo 3 (pp. 95-154) affronta un argomento altrettanto delicato di quello del secondo, «Gesù come ‘Dio’ nel Nuovo Testamento». Gli autori ricordano subito i dati principali: le 1.315 istanze di θεός nel NT riguardano principalmente il Padre, e solo una manciata di queste non è ambigua. Si passa ad esaminare questi passi, classificati secondo il tipo di difficoltà incontrata: critica testuale (1 Timoteo 3.16, Galati 2.20, Atti 20.28, Giovanni 1.18), sintassi (Colossesi 2.2, Efesini 5.5, 2 Tessalonicesi 1.12, Atti 20.28, Romani 9.5, Tito 2.13, 2 Pietro 1.1, Ebrei 1.8-9, 1 Giovanni 5.20, Giovanni 20.28, Giovanni 1.1). Noterete che, sotto l’aspetto della sintassi, c’è una mancanza criticabile (e non minore): Filippesi 2.6. I versetti sono trattati più o meno lungamente e si concentrano sempre su una serie di possibilità. Le regole di Colwell o di Sharp vengono menzionate superficialmente, con rinvio a D. B. Wallace. Su Sharp (cfr. pp. 115-116 nota 188) tengo ad una critica specifica: in effetti, gli autori rinviano a BeDuhn (versione inglese: 2003 : 92-94) che effettivamente considera il soggetto con la sua caratteristica ingenuità – ma il problema meriterebbe un esame più dettagliato, considerando anche Wallace 2008 e il dibattito Porter vs Wallace di cui mi sono fatto interprete.

Gli autori concludono che nei fatti non ci sono che tre o quattro versetti che attribuiscono con chiarezza θεός a Gesù (p. 130), e s’impegnano in un esame storico e filologico della nozione di «dio» nel monoteismo giudaico (pp. 132-138). Quel che ne risulta è che designare un agente come Elohim non riduce il grado di monoteismo (p. 135), né a fortiori lo fa il designare come «un dio» il Logos (p. 137, 143). Particolarmente utile è la classificazione ripresa da J. R. Davilla in proposito alle cinque tipologie di mediatori (pp. 139-140), che gli autori esaminano alla luce del Logos, per arrivare alla nozione cruciale di Figlio dell’Uomo (p. 144 ss.; su questo punto, si veda il recente contributo di Hadas-Lebel 2014: 113-129). In una sezione più specificamente dedicata al vangelo di Giovanni, gli autori distinguono Gesù dai mediatori che hanno descritto: «Gesù per Giovanni, pertanto, non è soltanto una rappresentazione o un agente divino, ma anche l’intermediario tra la creazione e il Creatore, colui che giustamente Filone poteva chiamare ‘un secondo dio’» (p. 149), cosa che non impedisce la «sua subordinazione a YHWH, che resta il ‘solo e vero Dio’» (p. 150). Un’interessante citazione d’A. Y. Collins sintetizza ciò è stato appena presentato (p. 151), si distinguono allora due tipi di «divinità»: la divinità funzionale e la divinità ontologica. Ma la Collins ci porta su una strada che gli autori non rilevano (Filippesi 2.6 ancora una volta).

In effetti, per la sintesi che richiede questo capitolo pieno di argomenti frammentati e complessi, si può legittimamente qualificare l’esposizione come brillante. I collegamenti tra cristologia e mediatori o agenti divini sono incontestabili, ma nondimeno ambigui perché impliciti. Applicare a Gesù questa divinità funzionale può rendere giustizia alla filologia dell’epoca. Si attendeva un Messia divino. Si conoscevano le ipostasi divine (Parola, Abitazione), gli angeli (e tutta la loro «fauna»: Potenze, Glorie, ecc.). Ma Gesù per come viene descritto nel NT appartiene a questo lignaggio, o forse costituisce un essere a parte, oggetto di una rivelazione nuova? Perché presentare il ventaglio di possibilità in seno al monoteismo giudeo è certo una tappa importante. Ci si può però ancora chiedere se Gesù non sia stato qualcosa di più di colui che si attendeva.

Il capitolo 4 (pp. 155-170) tratta della preghiera a Gesù in Giovanni 14.14. I problemi testuali sono relativamente ben esposti, e una citazione di Origene apporta un’interessante prospettiva al dibattito. Tra la lectio difficilior (presenze del με) e la lectio brevior (assenza), gli autori preferiscono la brevior. Stranamente non viene detto nulla di Giovanni 14.13 (…ὅτιἂναἰτήσητεἐντῷὀνόματίμουτοῦτοποιήσω…), né di altre varianti (ad es. τὸνπατέρα), né della possibilità che il με possa essere stato cancellato da un maldestro copista greco (detto ciò, a contrario, io sono sensibile al criterio interno dell’uniformità derivante dalla lectio brevior). Nel complesso, il capitolo raggiunge ampiamente il suo obiettivo: mostrare che la TNM segue il suo testo di base (WH che riporta l’espressione αἰτήσητέ [με]) e sceglie la lectio brevior in considerazione di argomentazioni plausibili. Come ho potuto constatare col mio Giovanni 14.14 vs Giovanni 16.23 ? (in lingua francese n.d.r.), tuttavia, non è un’argomentazione sufficiente (la questione è troppo delicata!). Su questa «preghiera a Gesù» bisognerebbe, per prima cosa, porre in prospettiva tutti i testi giovannei (Jean 14.13, 14.14, 15.16, 16.23, 24, 26), poi quelli degli altri libri del NT (notoriamente Atti 7.59b, cfr. Salmo 31.6 [LXX 30.6], Luca 23.16, Atti 2.21, Romani 10.13, 1. Corinti 1.2, 16.22, 2 Corinti 12.8, Rivelazione 22.20; Marco 9.38, Atti 19.13; Giacomo 5.14).

Il capitolo 5 (pp. 171-192) affronta la traduzione di רוּחַnella TNM. La TNM viene effettivamente sistematicamente criticata per aver tradotto רוּחַcon «forza attiva». Ma è un argomentazione forte quella di constatare (si veda la tabella alle pp. 173-185) che in effetti il termine viene tradotto con «spirito» nel 95.8% dei casi (p. 185), più che in altre versioni con le quali la TNM potrebbe essere confrontata. È dunque inesatto di imputare un motivo teologico a tal riguardo. Infatti solo il passo di Genesi 1.2 pone un problema. Esaminando più attentamente il suo senso come riportato in diversi lessici e in due altri passi simili (Isaia 40.26 e Geremia 32.17), gli autori deducono che la TNM ha tradotto il senso piuttosto che la forma. Sarebbe stato più semplice dire che per necessità la TNM deroga dalla sua letteralità, come qualche volta capita per evitare malintesi (d’altra parte la scelta viene sempre giustificata in nota, presentando, come esposto nell’introduzione, le traduzioni alternative possibili: qui «spirito di Dio»). Pertanto l’espressione «forza attiva» trasmette effettivamente la nozione evocata, ma costituisce una parafrasi non necessaria. È piuttosto l’espressione «forza attiva» che avrebbe potuto trovare posto in nota…

L’ultimo capitolo, il capitolo 6 (pp. 193-277) è il più denso e s’impernia su un argomento ancora più polemico: la croce. Il titolo, «Lo stauròs e il mos Romanorum» potrebbe sorprendere di primo acchito, ma si rivela estremamente pertinente. Dal momento che viene criticata la scelta di tradurre il termine σταυρός con «palo di tortura», l’autore del capitolo (il Dr. Simone Frattini) si propone di riconsiderare attentamente le fonti antiche per determinare 1. la procedura di una crocifissione tipica e 2. la forma della croce. Qualche autore e critico moderno viene citato per prendere la misura del problema: in effetti la crocifissione è descritta con pochi dettagli, il riferimento alle fonti sembra solido e rassicurante, l’argomento sembra ben padroneggiato, senza incertezze. Si parte dal grande classico di Hengel 1977 (Crucifixion in the Ancient World and the Folly of the Message of the Cross), che, tra gli altri, descrive la tortura in maniera precisa, per arrivare all’opera più recente (nell’ambito di una tesi di dottorato) di G. Samuelsson (Crucifixion in Antiquity: An Inquiry into the Background of the New Testament Terminology of Crucifixion » at Gothenburg University, 2011) – si veda specialmente la cizione alle pp. 199-200 del tutto sorprendente, per il non specialista (Samuelsson 2011 : 306-307):

The frequent and colorful depictions of crucifixions and the death of Jesus mentioned in the previous chapter are essentially without support in the studied text material. Neither biblical nor extra-biblical texts up to the turn of the first century offer such detailed descriptions as the mentioned scholars do. These scholars seem to imply that all texts in which the terms occur are crucifixion accounts from which they can extract information and, despite the texts’ diversity, add it together. The problems connected with this scholarly procedure have been the topic of the present investigation.

It is not impossible to find references to crucifixion in the ancient text material, but it takes more than the occurrence of a single term. It is not, of course, possible to draw the conclusion that crucifixions did not occur. There were probably suspensions in ancient times that cohered well with the suspension of Jesus. Yet that is not the problem. The problem is to determine with a decent level of probability that a text describes such a punishment. The overwhelming majority of texts are simply not comprehensible enough for that.

Con tali premesse, Frattini invita ad una lettura attenta delle fonti in sua compagnia. Prima di lanciarsi, riporta tuttavia con minuzia il consensus attuale, avendo anche cura d’indicare a quale cosiddetto mos Romanorum, vale a dire a quale procedura romana ci hanno abituato gli specialisti. In questo senso, vengono elencate otto tappe comunemente descritte (p. 207; 1. tortura preliminare, 2. trasporto del patibulum, 3. bloccaggio delle braccia con le corde, 4. inserimento del patibulum (orizzontale) sullo stipes (verticale), 5. inchiodamento o legamento del condannato, 6. presenza di un piccolo sedile di legno, 7. di un secondo sedile, e 8.titulus). Frattini sottolinea che le fonti vengono spesso citate di seconda mano, o nel caso di un rinvio diretto, l’assenza di un’analisi critica e di una contestualizzazione rende le conclusioni sospette o inesatte (p. 209).

É proprio questo il compito difficile ed ingrato che l’autore si propone. Personalmente non sono particolarmente interessato a quest’argomento, ma devo riconoscere che si tratta di un’importante opera di compilazione e di messa in prospettiva – che ho comunque meglio apprezzato in seconda lettura, con mente riposata, che non di primo acchito. Un consiglio doveroso per i non specialisti: è un capitolo da gustare. Le fonti sono citate in latino e in greco, spesso con una traduzione inglese o italiana (ma non sempre). La tabella alle pp. 211-213 elenca i 24 autori generalmente citati contro la TNM (32 passi) che vengono riesaminati nel testo. L’elenco ne precisa l’opera, il periodo (quello dell’autore), il tipo di riferimento (diretto o allegorico, «immaginario») e anche i testimoni manoscritto delle fonti e le date (secolo). 

Poste queste premesse, Frattini cita gli autori uno dopo l’altro, esaminando ogni volta ciò che può essere dedotto dalla descrizione fornita dalla fonte (sempre in merito agli aspetti di procedura/forma): ora, se un certo numero di fonti citano il trasporto del patibulum, l’impressione che se ne ottiene è che si tratti d’una tortura a sé stante, non specificamente collegata con quel che oggi s’intende come crocifissione (da p. 218), e ancor peggio, la forma della croce non è praticamente mai menzionata. Negli scritti di autori ben noti come Filone (p. 225) o Giuseppe Flavio (p. 226), non è possibile sistematizzare nulla, né la procedura, né la forma della croce. Anche in Giuseppe Flavio, che evoca questa tortura molte volte, la sola deduzione certa è che il verbo ἀνασταυρόω significa semplicemente sospendere su qualcosa (p. 226). Negli scritti di Tacito i riferimenti non sono rari, ma nulla di davvero simile all’idea che ci si è fatti (cfr. p. 234). In autori come Artemidoro di Daldi si pone la questione dell’assenza pura e semplice di storicità (p. 236). Per altri, come Giustino di Nablus, la mescolanza di una testimonianza e di una visione simbolica (e per di più ossessionante!) compromette tutta l’informazione pertinente (p. 245). Lo stesso si dica di Ignazio d’Antiochia, dove il simbolo ha la precedenza sulla descrizione (pp. 246-249). Per arrivare ad autori come Ireneo di Lione, lo pseudo-Barnaba e Tertulliano, dove appaiono testimonianze più precise (rispettivamente «cinque estremità», una forma di T, e stipes + patibulum evocano Cristo che apre le braccia) ma queste testimonianze sono irrimediabilmente mescolate a considerazioni allegorico-fantastiche, che già di per sé hanno un valore quasi nullo a motivo della loro tardività. Infine, il parallelo con l’AT (sospendere sul legno) viene ripreso a ragion veduta, associando in modo indistinto il fatto storico e l’interpretazione dogmatica, col risultato finale di impedire ogni conclusione (Policarpo).

In conclusione, Frattini riprende (pp. 271-272) la procedura come viene presentata nelle opere di consultazione per confrontarla con le fonti, e dedurre che né la flagellazione preliminare, né l’uso di corde o di chiodi, né il bloccaggio della barra trasversale sono documentati nei testi tradizionalmente citati, mentre alcuni sono citati al di fuori del loro contesto (Firmicus Maternus, IV sec.). Pochi autori – 3 o 4 (cfr. pp. 273-274) – offrono dei dettagli interessanti: lo pseudo-Barnaba, Giustino, Tertulliano e Minucio Felix, ma i dettagli sono compromessi dal loro metodo. Ci si deve limitare a considerare che la pratica della crocifissione è «molto variabile», a seconda «delle circostanze del momento» (p. 274), e che è conforme alle fonti antiche designare la trave di legno detta patibulum come «palo di tortura» perché tale era la sua funzione (cfr. p.275). Purtroppo, senza dubbio a causa dell’incertezza che prevale durante l’esame preciso delle 32 testimonianze, l’autore non conclude in modo assolutamente chiaro (pp. 276-277): perché precisando il senso dei verbi ἀνασταυρόω / σταυρόω alla luce delle fonti (sospendere su un palo/attaccare ad un palo), certamente si è fatto certo progresso significativo, ma resta pur sempre aperta la questione della forma, e della procedura, in modo specifico per la crocifissione del Cristo. Frattini suggerisce che il singolare e l’uso constante della stessa parola σταυρός (aggiunta a ξύλον, la cui funzione narrativa è sensibilmente diversa) indica un oggetto unico. Lo σταυρός sarebbe dunque, lui stesso, il palo, lo strumento finale di tortura.

La conclusione (pp. 279-283) riprende i dati principali dell’opera per riassumerli. Faccio notare che si ricorda che la forma della croce non è «precisabile con certezza» (p. 282). Gli autori concludono il loro studio come segue (p. 283):

Se i nostri studi richiedessero di accostarci ad una Bibbia prima del dogma, senza dubbio alla TNM dovremmo concedere un posto d’eccellenza.

Da parte mia, concederei l’eccellenza su alcuni punti (depurazione dai dogmi estranei, approccio non niceno), e l’apertura a qualche progresso su altri (leggibilità, qualche passo difficile).

Le mie conclusioni

Quest’opera solleva questioni spinose (il nome divino nella LXX e nel NT, la divinità di Gesù, la cristologia alta, il problema della crocifissione) e ne esce piuttosto bene: l’esposizione è sempre chiara, coerente, ben argomentata. Le referenze bibliografiche (ben aggiornate) non ingombrano l’analisi, ma l’arricchiscono in modo pertinente e quasi sempre adatto. Rilevo una certa propensione a citare le opere in modo fine a se stesso (senza precisare le pagine), il che può trovare una spiegazione senza dubbio nell’ampiezza e difficoltà degli argomenti immensi che vengono affrontati, che richiedono riferimenti continui. Il rischio di perdersi in digressioni era grande, ma affrontandoli solo dal punto di vista delle scelte operate dalla TNM, gli autori riducono significativamente il loro campo di analisi e il rischio d’incorrere in approssimazioni. É da lamentare qualche svista tipografica (qualche citazione greca, qualche autore leggermente fuori contesto), ma tutto sommato quantità limitata (e a questo pare già corretta nell’edizione del 02/2014). Quel che è particolarmente condivisibile, in effetti, sono le fonti impiegate: la bibliografia lo conferma (pp. 285-297), gli autori hanno condotta una ricerca approfondita con l’obiettivo di sintetizzare lo stato attuale della conoscenza degli argomenti trattati.

Occorre dire che scegliendo un approccio orientato (la scelta traduttiva della TNM), gli autori si privano de facto della possibilità di condurre una ricerca fondamentalmente originale, e invogliano il lettore a ulteriori approfondimenti. Questi stessi identici argomenti potrebbero essere esaminati completamente al di fuori dell’approccio apologetico. Per esempio, a proposito del nome divino nella LXX c’è ancora molto lavoro di ricerca da fare. Le tesi di Pietersma e Rösel possono e devono essere criticate più precisamente e in modo più sistematico. Questo è proprio ciò che ultimamente ha cominciato a fare, ad esempio, Anthony R. Meyer in un lavoro presentato a una conferenza, esaminando la paleografia dei manoscritti della Settanta (e la cosiddetta priorità di κύριος). Ma l’ipotesi di un κύριος originale (a causa dell’ellenizzazione dei traduttori alessandrini, cfr. Esodo 3.14 e Levitico 24.16) e di un utilizzo, da parte dei redattori del NT di copie «più esatte» (per dirla con Origene), vale a dire quelle di recensioniebraizzanti, è quantomeno un’ipotesi da considerare. Eresia/Restaurazione.

Per il nome divino nel NT (ne sono stato e ne sono tutt’ora un difensore), la questione paolina mi pare sia un’altra opportunità di approfondimento. Le sue citazioni, la sua cristologia, mi sembrano più sottili di una semplice filiazione rispetto al contesto dell’ambiente monoteista giudeo. Questa filiazione è possibile, e non c’è molto da discutere. Ma potrebbe esserci stato di più.

La data di quando il Nome è sparito dalle copie del NT, che io avevo collocato tra il 150 e il 200 AD (2007: 250, 2009: 252) e che gli autori della presente opera collocano nel medesimo periodo (p. 58), mi sembra ora un po’ tardiva (cf. 2012: 29, ad es. 80-115 AD). Per assicurarsene bisognerebbe esplorare ulteriormente l’apparizione dei nomina sacra, e la fissazione del canone, sia giudeo che cristiano (scuola di Yabneh vs standardizzazione delle pratiche cristiane, tanto scribali che dogmatiche; «processo editoriale» come direbbe D. Trobish). A tal riguardo, la loro presenza nel p52 (cfr. Fontaine 2012) è un dato fondamentale in ragione della datazione di quel documento (ca. 150 AD). Sono arrivato alla conclusione della presenza (anche se non esistono certezze assolute), sulla base di due fatti: le misure lo permettono e gli altri testimoni comparabili invitano a supporlo. Ma ci si dovrebbe stupire? Questo manoscritto, benché sia il più antico testimone del NT, è di per sé già tardivo e può venir confrontato facilmente con altri della sua stessa epoca (ad es. p46, p66, p90, p77/103, p104, p109, p. Egerton 2 etc.) che contengono i nomina sacra (cf. 2012: 22).

Riguardo alla divinità di Gesù, è da segnalare l’assenza di un’analisi dettagliata di Filippesi 2.6 e questa è la mia critica principale. Questo passo effettivamente è cruciale per comprendere di quale divinità risulta Gesù. D’altra parte si tratta di un passo che pone notevoli problemi semantici e sintattici (problemi d’anafora, doppio accusativo con infinito esplicitato e una presunta espressione idiomatica). Lo si sarebbe dovuto affrontare nella sezione appropriata (p. 108 ss.). In questo passo è contenuto anche il problema della natura ontologica di Cristo (una natura divina simile al Padre, da cui è generato – cf. Giovanni 1.18 e 1 Giovanni 5.1), e della natura funzionale (benché ricca per sua natura, egli non ha usurpato un ruolo che non è il suo; cfr. Ebrei 5.8).

Come si vede, la Bibbia prima del dogma invita a sviluppare la ricerca, ed è un grande merito. Gli autori hanno saputo dimostrare che la TNM ha fatto alcune scelte che, per riprendere una mia formula (2007 : 304), hanno «il peso di considerazioni che non possono essere semplicemente scartate con un’alzata di spalle». La scommessa è stata vinta.